Greyhound (2020)

Accerchiamento invisibile

Inizio Seconda Guerra Mondiale a stelle e strisce, Oceano Atlantico, mare grosso, cielo grigio all’imbrunire, una flotta di quasi 40 navi alleate, gli invisibili U-Boot tedeschi a tentare l’occulto accerchiamento da branco con siluri-saette e soprattutto tanta azione dall’inizio alla fine: questo il menù degli ansiolitici 90 minuti di proiezione per Greyhound, opera seconda a dieci anni di distanza dall’ottimo The Funeral Party per Aaron Schneider, apprezzato direttore di fotografia e per lo più montatore.

E’ proprio per merito di queste caratteristiche soggettive del regista che la pellicola vibrerà magnificamente lo scorrere del suo tempo a braccetto con un perfetto mixing, una luce sfocata e l’avvolgente montaggio sonoro a base di un azzeccato miscuglio di colpi “silenziosi” e “rimbombanti” dei due antagonisti, lasciando all’orrore di un attacco cieco e a sorpresa le redini del gioco, a discapito di dialoghi prettamente visivi ma lo stesso mai banali.

E’ Cecil Scott Forester il punto di riferimento della pellicola, che ripropone e adatta a mo’ di battaglia in diretta il suo romanzo del 1955.

La cinepresa dunque si concede pochissime pause, quelle degli attimi iniziali, quando il novello comandante Ernest Krause saluta gli affetti e si prepara per la prima missione a bordo della Greyhound, fra le tante imbarcazioni adibite a resistere e sconfiggere i terrificanti sommergibili tedeschi, la lezione dei quali fra l’altro costerà in futuro cambi di strategia in seno alla US Navy.

Una volta a bordo poi, lui e il suo equipaggio saranno investiti da angoscia e inquietudine, dovute ai numerosi avvistamenti di pericoli sottomarini e clamorosi cambi di strategia, volti infine a contrastare l’urto dell’invincibile nemico invisibile e attendere i rinforzi aerei.

Il cast, a parte il dolce rientro in cameo di Elisabeth Shue, e le spalle su cui appoggiarsi Stephen Graham e Rob Morgan, concede al mostro sacro Tom Hanks l’ennesima performance da one man show in questa sua magniloquente terza fase attoriale, nella quale l’istantaneo e drammatico potere decisionale che deve prendere in modo grintoso e austero per salvare migliaia di vita, fa da contraltare all’iconico sguardo sì impavido, coinvolgente e magnanime, ma principalmente umano, sensibile, impaurito e comprensivo: l’uomo comune per cui vale la pena combattere!

Il budget da 50 milioni non è da kolossal, ma sufficiente affinché la riproposizione delle battaglie siano veritiere e gli effetti speciali diano l’estrema realtà nelle situazioni più al limite, quando il siluro lambisce speronando chiglie, eliche, bulbi o timoni vari, creando climax a volontà e dando ai centimetri l’importanza essenziale tra il continuare a vivere o sprofondare negli abissi.

Le giovani reclute o giù di lì affiancano lo sgomento del loro capitano con sguardi colmi di panico, trepidazione e terrore, pronti però in pieno stile cameratesco a concedersi senza remore gli uni verso gli altri, accettando l’ingiustizia di essere accerchiati da un branco nella giungla a mare aperto.

Schneider con dei meravigliosi lunghissimi campi scenografici pure digitali, consente allo spettatore di immedesimarsi nella perdizione più ampia che ci sia, assegnando alla stupefacente meraviglia delle acque più profonde il contrappasso di una libertà a portata di mano ma inaccessibile!

La guerra dal vivo di 1917, combattuta da Sam Mendes a suon di pizzini nell’infernale viaggio da piano sequenza invadente, qui mantiene lo stesso claustrofobico senso di immediatezza, grazie ad un altro unico frame su cui il lungometraggio parte allorquando divampa la lotta, ma su larga scala, dando appunto come detto ai marinai accerchiati l’inconscia impressione di una fuga plausibile ma purtroppo proibitiva.

Il merito di questo lavoro sta nel non cedere a facili populismi e frasi ad effetto, dei quali la cinematografia statunitense sui generis trabocca, preservando la modalità prettamente action per raccontare però un’impresa che a fine proiezione risulterà comunque più umana che eroica.

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