Tre piani (2021)

Roma. Quartiete Prati. Un palazzo. Tre piani. Tre storie. L’Es. L’Io. Il Super Io.

Primo piano.
Lucio, Sara e Francesca sono i componenti di una famiglia borghese. Una sera la piccola Francesca viene affidata agli anziani vicini. Una volta rientrata nella sua abitazione la bambina mostrerá strani comportamenti che susciteranno in Lucio un’ossessione implacabile.
Secondo piano.
Monica è sposata con Giorgio che è costantemente all’estero per lavoro. La solitudine e la maternitá spingeranno la donna ad essere preoccupata per la sua salute mentale.
Terzo piano.
Dora e Vittorio sono una coppia di giudici con un figlio ventenne che una notte investe ed uccide una donna guidando in stato di ebbrezza. I genitori saranno costretti a prendere una decisione dolorosa.

L’ Es. L’Io. Il Super Io.
Nel romanzo di Eshkol Nevo, da cui il film è tratto, il personaggio del giudice dopo aver comprato un saggio di Sigmund Freud sull’Es, l’Io e il Super Io, riesce a comprendere meglio un suo sogno. Le storie del film si fanno metafora delle tre istanze intrapsichiche esattamente come nel libro. Il giudice spiega che al primo piano vi sono tutte le nostre pulsioni, quindi l’Es ( Lucio è ossessionato dal sospetto che la figlia sia stata abusata dall’anziano vicino di casa e i suoi istinti piú bassi lo porteranno ad avere un rapporto sessuale con una minorenne). Al primo piano, quello di mezzo, vi è l’Io, che cerca di unire i nostri desideri alla realtá (Monica vive in uno stato di confusione quasi costante, dove la realtá e le visioni si susseguono in maniera angosciante e dove, almeno nella dimensione allucinatoria, esplodono pulsioni sessuali represse). Al terzo piano vive il Super Io, che è l’istanza intrapsichica che si occupa di stabilire l’ordine e che ci costringe a pensare alle conseguenze sociali delle nostre azioni (Dora e Vittoria sono due giudici obbligati a sentenziare sul figlio). Palese quindi come, sia nel romanzo che nel lungometraggio, lo stabile è un microcosmo dell’anima.

A differenza del libro Moretti non affronta le tre storie come dei monologhi ben distinti tra loro, ma frammenta la narrazione intrecciando le “storiacce” e creando una sovrabbondanza di eventi nefasti che asfissiano lo spettatore. Il montaggio, con una serie di dissolvenze in nero,  è l’unico strumento attraverso il quale Moretti concede una breve boccata d’aria dai nerissimi avvenimenti che racconta. La sola concessione all’ironia è probabilmente involontaria: il personaggio di Nanni è un giudice, colui che per professione giudica. La cosa fa abbastanza sorridere se si pensa che il regista in quasi tutti i suoi film è sempre stato giudicante, e non solo in maniera morale, ma spesso anche moralizzante. E il suo Vittorio è il personaggio più stoicamente giudicante di tutti, sia nella professione che nel privato. Il mondo rappresentato in “Tre piani”, come quello giá descritto in “Mia madre” (il precedente film di finzione di Moretti), è un universo stanco, a nulla servono cultura e status sociale, l’irrazionale è una forza dirompente pronta a scardinare ogni certezza borghese. In tal senso “Tre piani” funziona sino a quando ritrae la borghesia in maniera spietata e algida, poi la voglia di arricchire la storia con sottotrame e colpi di scena da fiction fanno si che la narrazione perda la sua fredda cattiveria, ed il film sprofondi in un susseguirsi di trovate di sceneggiatura che virano verso la pietas più becera. Nanni Moretti non riesce ad essere estremo sino in fondo (chi sono quei pazzi che hanno paragonato questo film al cinema di Haneke?), la sua visione non è completamente pessimista e il lieto fine che concede ad ognuna delle tre storie rende il  lungometraggio banale. Le scelte registiche sono in linea con il precedente cinema del regista, tutto è ripreso in maniera frontale, i campi e i controcampi abbondano, e vi sono solo impercettibili carrelli nei campi totali. I primi piani sono funzionali ad entrare nella psiche problematica dei personaggi. Lo smarrimento provato da questi ultimi non è più ineluttabile come in “Mia madre”, la speranza è tra le pieghe del film, e il modo in cui viene rappresentata è didascalico. Le perdite messe in scena-quella della salute mentale, quella di una famiglia unita, quella di un figlio-alla fine trovano cura in un destino caritatevole e nella solidarietà tra esseri umani (forse solo il personaggio interpretato dalla Rohrwacher non farà una bella fine) e tutto diviene unidimensionale, piatto. Incommentabile la recitazione di Nanni Moretti che non si amalgama con quella degli altri interpreti, che sono indecisi sul registro recitativo da intraprendere. C’è chi sembra stia recitando in una fiction da prima serata, chi non riesce ad uscire dai suoi soliti tic interpretativi e chi è indeciso tra il registro naturalistico e quello antinaturalistico. Il risultato finale è stonato. Un’opera disomogenea, poco coraggiosa e irritante.

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