Le Mans ’66 – La grande sfida (2019)

Prendete due uomini feriti nell’anima con una passione per le auto da corsa grande così, date loro una Ford GT40 con cui riscattarsi, piazzateci sopra una on-board camera e lanciatela a tutta velocità su una pista da sogno: otterrete “Le Mans ’66 – La grande sfida”.

Dal “Grand Prix” (1966) di Frankenheimer in poi, la ricetta è sempre quella: riprese mozzafiato, motori potenti come cicloni e sfide all’ultimo sangue. Il risultato – almeno per le sequenze in pista – è adrenalina a mille e spettatori incollati alla poltrona sino al traguardo.

Insomma, quand’è così, si parte sempre col piede giusto (sull’acceleratore, naturalmente).

Poi viene il resto; l’amore, il tradimento, l’amicizia: le umane vicende; non sempre all’altezza del plot automobilistico, a dire il vero. Lo ricordiamo nel citato “Grand Prix”, splendido quando c’è da correre, ma imbrigliato fuori circuito da un romanticismo di maniera che finisce per essere stucchevole.

Pur con notevoli differenze, è in parte così anche per l’ultimo film di Mangold, dal momento che anche la storia che narra di Carroll Shelby (Matt Damon), primo americano vincitore dell’edizione Le Mans ’59 costretto al ritiro per un problema di salute, e Ken Miles (Christian Bale), folle e geniale pilota ultraquarantenne dal talento sconfinato, dà senz’altro il meglio di sé nel reparto corse (pur senza raggiungere le vette della pellicola di Frankenheimer), quando sono i bolidi a prendere la scena, pronti a far ruggire i motori e a mordere l’asfalto.

Ma facciamo un po’ d’ordine e partiamo dall’inizio.

Su consiglio del suo manager Lee Iacocca (Jon Bernthal), la casa automobilistica Ford decide di svecchiarsi e di rilanciarsi commercialmente; lo fa decidendo di scendere in campo nel mondo delle gare sportive. Perciò, dopo aver tentato invano l’acquisto della Ferrari, decide di sfidarla in campo aperto ingaggiando Shelby e affidandogli il compito di organizzare un reparto corse che possa vincere a Le Mans.

L’ex pilota ha soltanto novanta giorni di tempo per raggiungere l’obiettivo, perciò va sul sicuro e chiama l’indomabile Ken Miles per il collaudo della macchina. Lo vorrebbe anche come pilota per la gara, ma Leo Beebe (Josh Lucas), colletto bianco che soprassiede sul suo operato, glielo impedisce. Questione d’immagine: Ken va in giro sporco, dice quel che pensa…e, soprattutto, è lo stesso che ha osato sbeffeggiarlo alla presentazione della Mustang.

La GT40, perciò, resta orfana del suo collaudatore. La corsa va male, l’odiata Ferrari vince ancora. Shelby, tuttavia, non solo ottiene da Henry Ford II (Tracy Letts) in persona una seconda possibilità, ma addirittura riesce ad imporre Ken Miles come pilota per Le Mans ’66.

La scelta si rivela azzeccata. Ma il pilota è ritenuto troppo beatnik da Beebe per poter vincere e legare il suo nome a quello della casa automobilistica di Dearborn.

Non saranno, perciò, le insidie del percorso o i bolidi avversari a mettere in pericolo il suo trionfo, ma i diabolici escamotages architettati dal perfido manager.

Tratto da una storia vera, “Le Mans ’66” è un film coinvolgente ed emozionante, narrato in maniera lineare e affidato ad una sceneggiatura classica e un po’ furba in cui le caratterizzazioni dei buoni e – soprattutto – dei cattivi risulta eccessivamente marcata.

Christian Bale – ineccepibile come al solito nel calarsi nei panni del suo Miles – è senz’altro il più divertente del gruppo; Matt Damon, per bilanciamento, il più solido e centrato.

Quanto alla squadra “antipatici”, i ferraristi – Enzo Ferrari (Remo Girone) in testa – di certo non se la cavano a buon mercato; non tanto quanto l’insopportabile Beebe, algido e cinico fighetto tutto conformismo e american-way-of-life, nemico giurato di Ken Miles.

E’ nell’incompatibilità tra i due – e, più in generale, tra la coppia Shelby-Miles e il vorace mondo Ford – che si palesa l’eterno conflitto tra disinteresse e calcolo, tra passione e profitto.

Buoni i dialoghi, spesso piacevoli, nonostante qualche accento retoricheggiante. Sconfinanti sul melenso, invece, alcune scene familiari di Miles-Bale, in cui si indugia in qualche sentimentalismo di troppo.

Ottime la colonna sonora dalle atmosfere jazz di Marco Beltrami – adatta a dare la giusta spinta dinamica al racconto – e la fotografia luminosa di  Phedon Papamichael.

Molto belle le auto e la ricostruzione scenografica di Le Mans.

In conclusione, “Le Mans ’66 – La grande sfida” è un film gradevole, non esente da qualche astuzia di mestiere e reso scorrevole, nonostante la lunga durata (152 minuti), dal montaggio ultradinamico di Andrew Buckland e Michael McCusker, premiato agli Oscar 2020 assieme al montaggio sonoro di Donald Sylvester.

E se questi due premi ci paiono assolutamente meritati, resta qualche dubbio per la candidatura a miglior film: francamente troppo per un racconto ben confezionato ma tutto sommato ordinario.

Fortuna che il bellissimo “Parasite” di Bong Joon-ho – vincitore finale dell’Oscar più ambito – ha provveduto a ripristinare le giuste distanze e, soprattutto, a fare giustizia.

Spassoso

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