Favolacce (2020)

E se a raccontarci una favola fossero i più piccoli, che cosa ci direbbero? A chi attribuirebbero il ruolo dell’orco?

Dopo il folgorante esordio de “La terra dell’abbastanza”, riecco i fratelli D’Innocenzo.

Cambiano l’ordine dei fattori, ma lasciano intatto il prodotto finale.

Non è più la borgata feroce a fare da sfondo, ma una comoda e borghese villetta a schiera. Non sono più i malavitosi e i reietti ad animare il racconto, ma i ragazzi in età preadolescenziale.

Sono i loro occhi già tristi e incupiti, infatti, i protagonisti di “Favolacce”, film senza una trama lineare, affidato al libero flusso dello sguardo fanciullesco rivolto al mondo degli adulti – spesso i genitori – pervaso dall’odio sociale, dalla rincorsa all’arricchimento, dalla violenza strisciante, dal vuoto; pronto ad esplodere alla prima, apparentemente innocua, scintilla.

A loro le redini della narrazione di una storia che, per tre quarti, si tiene su toni grotteschi, a tratti poetici, ma che nel finale – di cui evitiamo lo spoileraggio – rivela una brutalità tanto sconvolgente da superare ogni più cupa forma di pessimismo. Perché, dopo aver a lungo evocato lo sguardo indagatore di Luigi Comencini sull’infanzia, “Favolacce” vira, nella parte conclusiva, sul crudele nichilismo di Michael Haneke, ne fa proprie, senza remore, la radicale narrazione del male, la disperata brutalità; manda al diavolo ogni happy ending lasciando sconvolto lo spettatore, ponendolo da solo con se stesso dinanzi all’orrore della realtà.

Lontano, in alto, aleggia il fantasma di Pasolini. L’ombra della sua analisi sociale sembra posarsi sui giovani protagonisti, già consapevoli della loro consacrazione al ruolo di vittime e carnefici, cui non resta che il viaggio iniziatico verso questi adulti sconfitti; un percorso inesorabile lastricato di maldestre emulazioni e gesti agghiaccianti.

Risiede in ciò la vera forza dei fratelli D’Innocenzo: nella capacità di rifiutare con decisione il politicamente corretto, nel coraggio di andare sino in fondo senza esitazione alcuna.

E’ tremendamente onesto il loro racconto sociale, spietatamente capace di far proprie le lezioni dei grandi maestri e di riproporle con assoluta originalità.

E’ un cinema – il loro – autentico, vivo, palpitante. Niente trucchi e niente inganni. E poco importa di piccoli difetti, lievi sbavature: con “Favolacce” i gemelli romani si confermano autori eccelsi, intuitivi, coraggiosi; capaci di portare alle stelle le interpretazioni attoriali di piccini e grandi (su tutte, quella di Elio Germano nello sconvolgente finale), di scrivere e dirigere le storie come davvero pochi sanno fare.

Per questo, non sorprende l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura ottenuto al Festival di Berlino 2020. Così come non ci meraviglierebbe che i due autori diventassero i nuovi portavoce del cinema italiano nel mondo. Perché di una cosa ormai si può già essere certi: la grande tradizione del nostro realismo, quello che va da De Sica a Caligari, ha trovato in Damiano e Fabio D’Innocenzo i suoi epigoni, gli interpreti col physique du role ideale.

E’ per tale ragione che vi consigliamo la visione di questo tragicamente bello “Favolacce”; un film durissimo e atroce, alla fine del quale ben difficilmente si avrà voglia di ripetere la solita frase ”Ah, se potessi tornare agli anni della mia infanzia!”.

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