The Song Of Names (2020)

Un violino contro l’olocausto

Poco più e meno di un ventennio da “Il Violino Rosso” e “Il Pianista”, Francois Girard riprende spunto dalla propria ossessione verso lo strumento-oracolo e traspone sul grande schermo l’adattamento della novella di Norman Lebrecht, una sorta di reunion col pianoforte di Polanski, mezzi magici per ammaliare le coscienze altrui nell’epoca più feroce, quella delle guerre ed in particolare l’olocausto. Iniziare da qui, paragonando un capolavoro assoluto del cinema a bandiera polacca con questa intrigante ed onesta opera del cineasta franco canadese, sceneggiata da Jeffrey Caine, è francamente eccessivo ed ingeneroso.

Il dramma a cui Girard attinge è una storia divisa in tre fasi, dalla simbolica adozione musicale nell’Inghilterra agli albori del secondo conflitto mondiale del piccolo funambolo Dovidl Rapoport – mandato dal padre in fuga solitaria col suo violino dalla pericolante Polonia – da parte dei Simmonds, dalla fratellanza adolescenziale e ribelle tra l’ormai rimasto orfano emigrato e Martin ed infine dalla disperata ricerca che quest’ultimo farà del primo, scomparso nel 1951 quando da famoso e apprezzato violinista abbandonerà un concerto a lui dedicato, sparendo per più di 30 anni dalla scena e lasciando nel lastrico la sua famiglia adottiva!

Dominatore ai Canadian Screen Awards e in premiere al Toronto International Festival, il film si avvale di ottimi effetti visivi contemporanei, un sound editing virtuoso e dei trucchi e costumi affidabili sia nel vestiario comune di quell’era che negli esterni scenograficamente realistici. In più, ci mancherebbe, una musica di sottofondo e da accompagno prettamente emozionante ed eccitante, che amplifica la tragedia grazie alle sinfonie della leggenda Howard Shore!

Lo spunto di fondo è sempre il caro e vecchio sentimento dell’amicizia, che scorta i virtuosismi violinistici ai quali Martin assiste e che mai ne abbandonano la memoria, una sorta di flashback cerebrali che da uomo rimembra in continuazione nella sua stoica caccia al compagno di infanzia perduto.

Il soggetto avrebbe di che attrarre ed intrigare come detto, dato che i molteplici esempi cinematografici del passato vengono parallelamente sfiorati ma mai toccati e i tre step potrebbero linearmente condurre al termine in maniera scorrevole e veloce.

Ciò avviene singolarmente per merito dei quasi debuttanti Luke Doyle e Misha Handley, grazie ai quali lo sguardo bambinesco testimonia alla perfezione il terrore di una guerra e lo shock quotidiano a perdere familiari da un lato e confortare l’iniziale rivale dall’altro, mantenendo un’aurea sì diffidente ma pronta però ad unire la coppia di “fratelli” man mano che i tormenti cresceranno.

Altresì dignitoso lo step della vitalità, degli amori associati a cruccio e angoscia e delle scelte finali, sul proseguire la nuova vita, quella che ha portato Dovidl lontano dalle torture naziste violino alla mano, o ricercare negli inferi l’epilogo della propria stirpe, per poi cantarne o suonarne la morte al fianco dei superstiti.

Quel che manca grossolanamente, magari pure a causa di una sceneggiatura a quel punto noiosa e satura, è l’interpretazione delle due star nello stadio della maturità, del re incontro e di una focosa e feroce resa dei conti, che però un fiacco e demotivato Tim Roth non riesce ad apportare e il suo partner in crime, Clive Owen al solito lucido nell’espressività ma stavolta poco coinvolgente, se non nella melodiosa e magniloquente performance finale, si tiene troppo in disparte anziché esplodere come il Dovidl precedente avrebbe fatto.

Il lungometraggio perciò si salva nell’originalità, svolgendosi in continui salti temporali che non annoiano lo spettatore, sebbene di highlights se ne vedano pochi, e utilizza perfettamente l’olocausto come scorciatoia per la tragedia, ma lo delude clamorosamente nelle delucidazioni conclusive, vero termometro per innalzare il lavoro di Girard a film da ricordare oppure metterlo all’interno dell’enorme calderone di opere contro l’infamia tedesca. Soprattutto dopo un’intera rincorsa a cercare qualcuno e qualcosa, troppo scarna si rivela la spiegazione di un angoscioso addio trentennale e i due assi, nel poco spazio disponibile all’interno di un auto, non riescono a rendere giustizia alla loro fama e a quella di una pellicola che si aspetta il climax ad effetto, ma che si dovrà accontentare di un flaccido pugno e un paio di pacche sulla spalla. Peccato!

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