Pinocchio (2019)

La storia più bella torna alle origini

Matteo Garrone entra nel calderone Pinocchio, unendosi anch’egli alla nutrita schiera di registi, scrittori e produttori che hanno proposto in tre lustri temporali la fiaba più bella mai raccontata. Lo fa cercando di riportare alla normalità una storia infinita e spesso trasformata a livello narrativo, aggiungendo pure lui qualche divagazione sul tema, ma rimanendo alla fine sostanzialmente fedele al capolavoro di Collodi e alla meravigliosa trasposizione filmica di Comencini.

A differenza di quest’ultimo, costretto a rappresentare per ovvi problemi d’epoca più Andrea Balestri che il burattino, trasformandolo in esso solamente nella negatività dei propri comportamenti, qui Garrone si avvale di una spettacolare lavorazione al trucco e nei costumi, con sessioni lunghissime per l’ottimo Federico Ielapi, in pratica il clone di Pinocchio, che portano la pellicola ad essere un fidato riassunto della miniserie del 1972, ma pure a dare un originale alone dark e fantasy grigio al film, mantenendo perciò intatta la creatività onirica del regista nel girare romanzi drammatici.

L’esagerata ambizione di Benigni aveva allontanato il prototipo primordiale, esaltando maggiormente l’interpretazione degli attori e un magnifico allestimento scenico, che uniti alla colonna sonora di Piovani e alla splendida fotografia di un mago come Dante Spinotti davano alla trama sembianze psichedeliche e a momenti irraggiungibili. E’ proprio la presenza nel ruolo di Geppetto del genio toscano quasi una sorta di redenzione per il comico e l’opportunità di tornare sui suoi passi, personalizzando il personaggio probabilmente più importante di tutto il libro, elogiando così quella povertà tanto decantata nella sua infanzia, in maniera straordinariamente triste ma pure positiva, riportandoci alle difficoltà, da molti dimenticate, dell’Italia di fine e inizio secolo scorsi!

Belle e credibili sono inoltre le location, campagne, antichi ruderi, falegnamerie e vecchie insegne, locande, trattorie, case abitate e disabitate e il verde delle colline toscane, laziali e pugliesi.

Lo stesso sulla modernità degli effetti cinematografici e folcloristici, perfetti nel riprodurre balene al pari di Ron Howard, burattini, animali umani e parlanti o personaggi problematici ma pieni di calore e affetto, un omaggio più a Tim Burton che a Collodi.

A musicare il tutto la certezza Dario Marianelli, che accompagna l’intera durata del lungometraggio con una colonna sonora leggera ma sentita e passionale.

E’ proprio il tempo il nemico del regista, costretto a numerosi rattoppi per far entrare tutto in due ore, velocizzando le azioni di un perfetto Proietti/Mangiafuoco, tanto da non svalutarne l’interpretazione, rendendolo però un po’ troppo magnanime, iniziando direttamente dalla scena madre e divagando sulla tardiva sostituzione dell’asino Lucifero e sull’accompagnamento di babbo Geppetto verso scuola, assenti nel libro al pari di altre sfaccettature.

Ciò si può però perdonare visto che i vecchi eroi ci sono tutti, dalla fatina bambina e signorina al grillo parlante, da Arlecchino all’amico ribelle, la lumaca, Mastro Ciliegia, il tonno e molti altri, fino al Gatto e La Volpe, un genialoide Rocco Papaleo che brilla per l’avvolgente mimica facciale e la sorpresa Massimo Ceccherini, one man show e pure sceneggiatore bipartisan.

La molta fantascienza in ognuno di loro, ritratti pressochè da alieni, e alcune scene forti, come la denuncia al tribunale, l’impiccagione e la violenza sugli asini, sono il prezzo da pagare per una regia dark in stile Garrone, che non filma assolutamente un capolavoro, ma riesce a unire le origini di una storia vecchia 140 anni alla tecnologia moderna!

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