L’Arma dell’Inganno (2022)

Un’incredibile storia di spionaggio che però non entra appieno nel cuore

Una guerra interiore fra le menti sopraffine dell’Intelligence Britannica per fraintendere Hitler e sbarcare in Sicilia senza opposizione: a questa incredibile e reale vicenda attinge il maestro John Madden in Operation Mincemeat.

Per riadattare il soggetto di Ben Macintyre e farlo scorrere meglio il regista chiama a rapporto un bel cast “british”, infarcendo di bizzarria e humor l’interno di una trama altresì drammatica e ricca di sotterfugi, quelli appunto delle stanze dei bottoni inglesi e tedesche.

Colin Firth, Matthew Macfadyen e Kelly Macdonald sono i campioni di questo film, capitano, tenente e segretaria vedova incaricati dall’intellighenzia britannica di rendere possibile un colpo pazzesco, mandare cioè alla deriva greca il corpo esanime di un finto soldato della Royal Marines, un senzatetto ed eroe per caso, per disorientare i nazisti e avere invece campo libero nell’isola italiana.

L’arco narrativo si divide in tre step per filare liscio e più scorrevole possibile, frazionando il copione nell’iper interessante “inizializzazione” della futura stangata al dittatore, trasformando appunto gli interpreti in scrittori/sceneggiatori della prima ora, con simpatiche e grottesche discussioni su come impostare il bluff, in un inconscio menage à trois che sviluppa insidie e gelosie fra protagonisti e superiori affini ed infine la parte evolutiva del piano, quella cioè che dovrebbe immettere pathos e climax nella pellicola.

Dovrebbe perché purtroppo è proprio quest’ultima fase della regia di Madden che viene a mancare, il punto pratico, il rilascio in mare che deve gabbare i nemici, ciò che in ogni lungometraggio spionistico trasforma una sceneggiatura complessa e tortuosa in un mistery dark eccitante ed ansiolitico.

Niente di tutto ciò, anzi la recitazione di Firth e soci in una flemma cotanto peccaminosa ristagna anch’essa, impedendo all’empatia che i loro personaggi hanno fino a lì generato di effettuare il salto finale verso gloria ed eroismo.

Resta di certo l’interesse estremo per capire come sia nata una delle più grandi fake di sempre, cosa c’è dietro ad ogni decisione fra 007, le lotte di potere interne e il percorso tortuoso fra l’invenzione di un piano e la sua attuazione.

Bella inoltre l’opzione di non invadere lo schermo con icone d’epoca, tralasciando quindi di impegnare il minutaggio del film con pesanti riunioni come il genere richiederebbe, donando al Churchill di turno il giusto spazio per dare gli ordini definitivi.

All’interno di una convincente fotografia originale appare poi dolce e ammirevole la scoperta caratteriale di personaggi forti ma alla fine fragili e umani.

Madden preferisce perciò raccontarla la guerra anziché rendercela visibile, esaltando l’artefatto primario piuttosto che giustificarne la riuscita con azione e vibrazione, quello che una storia di spie avrebbe invece dovuto apporre.

Una scelta lecita che però mantiene una buona opera come tale, non permettendole di crescere ma campando bensì della rendita che l’ottima prima parte aveva portato a compimento.

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