Mank (2020)

Penne dannate

Il genio di David Fincher entra a gamba tesa sul film più importante di tutti i tempi, riaccendendolo di colpo e rendendo giustizia e omaggio al vero eroe nascosto di Quarto Potere, che nell’ombra dell’iper coccolato e viziato Orson Welles, scrisse le magiche parole per Charles Foster Kane e soci, ergendo a livelli estremi i sotterfugi del potere economico di un magnate e la caduta negli inferi della sua dispersa anima.

Penna dannata e rock star sui generis di un’epoca – quella dell’inquietudine pre conflitto mondiale – già allora collusa all’occulto clientelismo del mainstream hllywoodiano, era Herman J. Mankievicz, tormentato fratello maggiore del poi più famoso e celebre regista Joseph L!

Il formidabile cineasta di Denver, come da tradizione, rientra in pompa magna dopo un periodo di attesa dall’ultimo lavoro (L’Amore Bugiardo), cedendo le redini del gioco a un asso del calibro di Gary Oldman, che raggiunge in questa ennesima top performance le vette di La Talpa e L’ora più Buia, prenotandosi un possibile altro viaggio nella notte degli Oscar.

Una coppia così straordinaria, cede a questa opera un alone quasi mistico, sfruttando lo spettacolare bianco e nero che riporta d’incanto all’era della Rko e una scenografia praticamente ad hoc per incarnare abbigliamento e lochi in tempi di crisi delle case cinematografiche di allora, creando l’ambiente adatto per supportare la tesi che volle Mank quale unico scrivente della sceneggiatura nel copione steso da Welles!

Il lungometraggio si differisce in due periodi distinti, anni trenta prima e scrittura di Quarto Potere poi, grazie agli azzeccati e sottotitolati flashback di Fincher, nei quali si accentua quale costante primaria la psiche labile del protagonista, sfiancata dall’irrecuperabile dipendenza alcolica, ma che in stile allegorico riesce pure ad innalzarne bontà e giustezza d’animo di fondo, con la quale Mank non si piega a ingiustizie e soprusi, non disdegnando nemmeno aiuti verso i suoi conviviali e limitrofi bisognosi.

Nell’incantevole mondo del giovanissimo ma già prodigio Welles, dove un contratto inedito gli concedeva ampia libertà narrativa, direzionale, creativa e collaborativa per il proprio debutto in regia, c’era però un posto libero per i dialoghi di Mankievicz, sceneggiatore tutto fuorchè inserito nei salotti perbenisti del cinema, assoldato durante un incidente automobilistico e obbligato a chiudere i testi in un paio di mesi.

In due ore e passa si ripercorre quel decennio di Mank, come detto avanti e indietro, lui assistito sotto dettatura dalla quasi badante segretaria, inviso dai produttori principali e a passeggio fra gli studios, tra incontri coi colleghi dei bei tempi andati, attori sul lastrico o nel viale del tramonto, trame oscure che allineano pellicole cinematografiche a quelle propagandistiche e amicizie vere o presunte tali coi tycoon dell’editoria sui quali ispirare il lavoro, e relative amanti (la splendida Marion Davies di Amanda Seyfried), mentre l’occhio indiscreto della politica osserva sospettoso in disparte.

Oldman lascia l’anima in questa magnifica trasposizione, battendo sul nascere la concorrenza che ogni antagonista gli metterà dinanzi, in quella che forse è l’interpretazione più adatta e riuscita di una carriera lunga, incredibile e variegata, grazie al suo classico stile che gli consentirà di tramutare Mank in un “bello e dannato” ante litteram, con taglio goliardico da humour british/newyorkese, non disprezzando bensì di mostrarsi debole e inerme, con un fisico vicino al collasso, mantenendo però sempre la testa alta e pronta al rifiuto, tranne che per ottenere l’accredito finale alla tanto agognata sceneggiatura in questione, perché la migliore da lui mai scritta!

Ciò che accadrà è scritto nella storia di Hollywood, visto che Quarto Potere, ancestrale lezione mediatica “su come far pensare la gente”, ottenne difatti fra i riconoscimenti più ambiti unicamente la sceneggiatura, ingiustamente bipartisan Welles/Mankievicz!

Fincher dà manifestazione di maturità distanziandosi dalla regia ricca di piroette che lo ha reso celeberrimo, accontentandosi esclusivamente di rievocazioni temporali e abbandonandosi al soggetto di per sé attraente ed intrigante e ad un mattatore in recitazione all’ennesima prova del nove superata: quella di restituire l’appropriata dignità a tutte le penne che creano il puzzle di un film!

Per questo, sebbene appunto in una trama monodimensionale, Mank scorre fluido, e lo scopo primordiale di riscrivere la storia di Quarto Potere, rendendo giustizia ad Herman J. Mankievicz, uno dei tanti miti dimenticati, lontano dalle luci della ribalta di Hollywood e lì all’ultima sceneggiatura, è andato a buon fine!

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