Elegia Americana (2020)

Delude il Sogno Americano di Ron Howard, nonostante Glenn Close

E venne per Netflix il giorno tanto atteso, quello nel quale la più famosa piattaforma di distribuzione film via internet avrebbe potuto anch’essa presentare la propria candidatura agli Oscar! Una svolta epocale che fa discutere ma figlia dei tempi.

Ed è così che Elegia Americana, per la precisione Hillbilly Elegy: A memoir of a family and a culture in crisis, best seller 2016 numero uno per il New York Times, sbarca sul grande schermo, o appunto per meglio dire in streaming, sotto l’ala protettiva della società di Los Gatos, e rappresenta finora il campione numero 1 mai mostrato a livello di lungometraggi.

La storia biografica è quella di JD Vance, originario di Middletown in Ohio e studente di giurisprudenza a Yale, che ripercorre la travagliata esistenza personale all’interno della comunità appalachiana, attraverso povertà familiare, crisi economico/lavorative, bullismo e prime afflizioni giovanili. A contorno di ciò si addizionano i tormenti di madre fallita e tossicodipendente, nonna acciaccata ma capobranco indiscusso, anche lei reduce da una gioventù complessa e turbolenta, fatta di gravidanza tredicenne e marito violento da tenere a bada in ogni modo, persino col fuoco, e una dolce sorella maggiore pronta a mettersi in proprio ma col cuore legata alle angosce domestiche.

Il sogno americano vero e proprio sotto forma di racconto, il cui libro ha battuto ogni record di vendite ed emozionato lo statunitense medio a caccia di resurrezione personale, affidato alla grandezza di Ron Howard e alla recitazione di due regine a caccia del riconoscimento più ambito, sfiorato ripetutamente, Amy Adams e Glenn Close, non poteva e non può che avvicinarsi alla perfezione!

Purtroppo però non sarà così, dato che se le due superstar faranno sì ciò di cui sono abilmente capaci, cioè bucare lo schermo con un acting tremendamente incisivo e drammatico, a mancare sarà per l’appunto il tocco magico alla regia del celebre cineasta, che si metterà in disparte lasciando all’interpretazione dei singoli qualunque onere conclusivo!

L’inno all’escalation collettiva, viene difatti trattato da Howard soltanto in modo marginale, affidando al dubbio di fine pellicola del nostro JD, se avviare o no la propria carriera giuridica, accettando la convocazione che potrebbe cambiargli la vita ma a 10 ore di macchina e quindi lontano dalla famiglia, lacerata dall’ennesimo grave attacco di dipendenza dell’ormai perduta madre, l’unico sliding doors per il futuro successo personale e risorgimento dagli inferi.

A girare attorno a questa amletica perplessità, non basterà una cinepresa lì si convincente a spasso nel tempo, che renderà giustizia a un arco narrativo coerente, accoppiando le tre fasi della vita di JD, giovinezza frustrata, adolescenza dapprima turbolenta e poi redenta, e maturità anticipata, in modo costante per non far perdere allo spettatore il livello del dramma, visto che pure qui a rimanere impressa è esclusivamente la parte torbida della trama, che fa emergere solamente le difficoltà di casa Vance, mettendo in naftalina lo scopo primario dell’opera, cioè quella risalita sociale prossima ad innalzarsi, alla quale come detto Howard lascia solo l’immaginazione.

Non basta una commovente Glenn Close all’ennesima prova da Oscar, sosia dell’originale Mamaw, che colpisce con la sua zoppia cadenzata e durezza d’altri tempi, arma isolata per controllare la baracca e salvare il futuro di JD e della propria stirpe. La progressione con la quale entra pian piano in gioco è l’esclusiva vittoria di questa pellicola, perché è lei l’anello di congiunzione fra le tante anime presenti, i suoi sacrifici, le rinunce e l’incommensurabile ma obbligatoriamente occultato amore per il nipote, convincente nel paffuto debuttante Owen Asztalos.

Non viene in soccorso del regista nemmeno una scrittrice del calibro di Vanessa Taylor, al contrario magica nelle oniriche parole de La Forma dell’Acqua, Aladdin o finanche Il Trono Di Spade, poiché qui i suoi dialoghi imprigionano una comunque grandiosa Amy Adams dentro il costante incubo del suo personaggio, perfetto quale mamma tossica e bipolare, ma distante dalle rivincite prossime a venire, e mettono fuori gioco Gabriel Basso, pesce fuor d’acqua fra due così portentose ed invadenti interpretazioni femminili.

Quel che rimarrà ai posteri è un film a metà, troppo hollywoodiano, smielato e melodrammatico, che si adagia eccessivamente nell’introspezione e gli assoli dei singoli e poco sul significato originale, concedendo briciole dapprima ai positivi cambiamenti adolescenziali di JD, invece significativi e determinanti per il racconto, poi al trionfo della middle class operaia a stelle e strisce, ed infine al lieto fine, esposto appena con patetici e didascalici titoli di coda!

Concludendo, troppo facile appare il compito di Ron Howard, che non innalza le conquiste di quella parte d’America povera, emarginata, accantonata, sottopagata e priva dei diritti essenziali, a seguito della mastodontica crisi industriale che colpì stati come Illinois, Michigan, Ohio e Pennsylvania, poi fortino di Trump nelle elezioni 2016, e qui accennata di striscio.

Il lavoro del regista si è coricato solamente sull’intimità di una storia familiare, esaltandone amore e unità al pari di violenza, povertà e varie dipendenze, trasformando perciò la missione prioritaria del libro in un polpettone pronto sì ai premi più ambiti di Hollywood, ma lontano dalle aspirazioni della vigilia!

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