Le Strade del male (2020)

Un pretestuoso tentativo di raccontare l’epoca più difficile

Caduta in basso per Netflix, che distribuisce nella propria piattaforma un irreale tentativo di spiegare l’epoca post secondo conflitto mondiale in modo goffo e presuntuoso, cercando di inserire in due ore e passa di proiezione un po’ tutte le crisi e tormenti che flagellarono la mente di un’intera generazione a stelle e strisce, disillusa e frustrata.

Il problema di fondo è voler a tutti i costi annettere nel pacchetto qualunque tipo di insorgenza spirituale, approfondendo la psiche dei combattenti prima e reduci ed affini poi, di collettività al collasso sociale, del bigottismo americano soggiogato dal vorrei ma non posso e da una ribellione intrinseca di ogni essere umano, giustificando in maniera a dir poco surreale e improbabile la nascita del killer seriale.

Così facendo, se non si ha in regia lo Spielberg di turno, si rischia di dire tutto e niente, chiudendo la propria opera con enormi buchi che una sceneggiatura scostante e povera di contenuti non farà altro che accentuare.

Peccato perché Antonio Campos potrà contare su una produzione sfarzosa, dove risalta l’interesse di Jake Gyllenhall, sempre innamorato dei drama cerebrali, che gli permetterà di fare affidamento su un numero sostanzioso di assi in recitazione, ognuno dei quali farà suo un acting generoso ed intrigante, ma che infine si evidenzierà scollegato all’arco narrativo.

La storia verte sugli incubi di Willard Russell e successivamente del figlio Arvin, l’uno shockato dagli orrori del Pacifico sud occidentale, e l’altro erede di angoscia e afflizione, intorno ai quali girovagheranno anguste esistenze prive di morale, ottimismo e rivolta verso le oppressioni!

Se la fotografia con annessa luce fifties e un’azzeccata colonna sonora rispecchiano la tempistica in questione, quel che difetta nelle fondamenta del film è una positività interiore che farà nella realtà dei fatti ritrovare fiducia alla stirpe futuristica, generando poi decenni di euforia ed economie fiorenti, ma qui elaborata esclusivamente nel confuso finale di pellicola, quando l’ormai protagonista assassino ascolterà alla radio Lyndon Johnson e sognerà la redenzione personale!

L’opera di Campos invece cura soltanto il lato dark degli anni ‘50, affidando all’inutile voce fuori campo – noiosa e prolissa – lo sforzo di alzare un apparente hype purtroppo solo immaginario, visto che quel che accade a seguire non impatta alcuna sorpresa.

I temi discussi, importanti ed effettivamente presenti nell’era di riferimento, quali rabbia, frustrazione, subordinazione femminile, corruzione e criminalità, conseguenti l’essere passati da bambini ingenui ad adulti in troppa fretta, non trovano riscontro nella narrazione, che difatti sviluppa i personaggi con sciatteria e trascuratezza in un’abbondante prima ora e 10 di proiezione, per farli esplodere dopo in modo prorompente e ingiustificato.

La collera di Arvin che lo porterà ad uccidere senza rimpianto, sebbene per difendere gli affetti, è perciò immotivata, dato che segue la sensibilità e purezza di un bimbo che sopravvive sì al dolore, ma non dà segni di crolli apparenti; improponibili altresì le trasformazioni di coppie nate schiettamente in caffetterie verso l’efferatezza di serial killer metodici e organizzati, il marcio poliziesco, svelato all’improvviso, e la raffigurazione sudicia del ruolo di predicatore.

L’universo femminile del periodo, proprio perché giustamente ritratto come prostrato al predominio maschile, subisce però un colpo mortale nel simboleggiare poi una curiosità torbida, all’inizio solamente fantasiosa, che lo scorterà in un’autostrada di disonore, fustigazione e gesti estremi!

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