The Gentlemen (2020)

Il boss invecchiato di Guy Ritchie

West London, pub isolato, boccale di birra, piano sequenza rallentato, la sentenza del boss e schizzi di sangue: Guy Ritchie è tornato!

Lo fa mantenendo la classe che lo ha erto a mito, utilizzando gli shockanti trucchi del passato, da una luce prettamente irish agli iconici e incessanti flashback, dal montaggio a ritroso alle ansiolitiche slow motion, fino ad arrivare al feroce e focoso slang britannico, condito però da un irresistibile humour nero, per terminare con l’usuale e azzeccata soundtrack di contorno, dai Can a David Rawlings, da Paul Jones ai Cream per arrivare al festoso epilogo di Paul Weller e i Jam!

Al solito il cineasta di Hatfield ci mette anima e corpo e soprattutto firma tutti i crediti della pellicola, partendo da un racconto (l’ennesimo) goliardico e ricco di deviazioni nell’arco narrativo, avvalendosi di protagonisti e supporting cast di livello, tentando però di non ripetersi e cadere nel banale: la missione riesce a metà, dato che l’originale voce fuori/dentro campo di uno strepitoso Hugh Grant sostituisce il più delle volte l’action mode dei bei tempi che furono, quando i vari Brad Pitt, Jason Statham, Dennis Farina o Vinnie Jones esplodevano la loro rabbia a suon di splatter Tarantiniano!

La trama stessa però ha parecchi punti piatti e rattoppati e il suo boss non riesce a dare l’immagine di pentito e spossato, voglioso come dice a redimersi e ritirarsi a vita propria, dando perciò un senso di vorrei ma non posso che rispecchia forse l’animo di Ritchie, ormai 52enne dentro a un limbo mentale tra chi ha inventato il gangster prosopopeico e imbattibile e quello che deve mandarlo in pensione. Poco cambia visti gli incassi pre pandemia, che stanno a palesare la bravura e singolarità del genialoide regista e l’affetto e devozione dei milioni di adepti sparsi nel pianeta!

Sta al Mickey Pearson di Matthew McConaughey l’onere/onore di rappresentare sul grande schermo lo spirito attuale del direttore d’orchestra, lui unico “straniero” del gruppo e mentore del riciclaggio di cannabis, sfiancato (?) dal business e intento a godersi la bella consorte, una Michelle Dockery talmente moglie del capo da emularne sicurezza decisionale. Spiato da editori e rivali pronti a subentrargli al timone di comando e gabbargli l’affare, verrà affiancato nello scorrevole svolgimento da numerosi solidali e non, che nel pieno stile Ritchie divideranno il lungometraggio in più step e sceneggiature distinte, per incontrarsi poi nella resa dei conti finale!

Sono ancora i dialoghi il punto di forza del regista scrittore, che accompagnano assiduamente i 113 minuti di proiezione con scontri verbali intensi ed incisivi che tengono a galla la totalità del copione, colmando le lacune di un soggetto altresì sterile in alcuni tratti, sfruttando le quattro stelle presenti – il buttafuori alla “Mister Wolf” di Charlie Hunnam e il misterioso e scapestrato “Coach” di Colin Farrell gli altri due pregevoli protagonisti – vogliosi di apporre il loro timbro in un lavoro a firma Guy Ritchie. Grandiose anche le improvvisazioni secondarie di Eddie Marsan, Jeremy Strong ed Henry Golding, cuore e motore di tutto il film.

Ciò è pure un pregio se si analizza lo scopo primordiale, cioè proporre un’opera più matura, calma e pacata a differenza degli esordi, col Fletcher di Grant a scandire un ritmo quasi didascalico e subentrante a quello cruento di un tempo, ma è per l’appunto l’immagine intrinseca del boss Pearson a fallire irrimediabilmente e compromettere il risultato definitivo.

Se è infatti vero che il teppista dello story teller ha fatto strada e si è infilato nei salotti borghesi, contornato da duchi reali, duchesse, aristocratici, politici e lord, non disdegnando frequentazioni particolari, che siano Dragoni o Mossad, conserva però l’alone da bullo imbattibile, anziché avere l’atteggiamento sofferente e saturo di chi cerca quiete e tregue da mezza età. In contrasto con le magistrali macchiette presenti risultano smodatamente sguaiate, superbe ed inaccessibili le recitazioni di McConaughey e Dockery, egli tornato così agli errori di una volta.

Non si capisce se l’input viene da chi dirige o chi interpreta, fatto sta che l’apprezzabile sforzo di redenzione e saggezza che si capta dall’inizio subisce un conclusivo colpo mortale, che abbinato ad un finale perciò facile da intuire ci lascia un briciolo di amarezza per non aver visto il capo branco deporre le armi e rifarsi un’esistenza, meno ansiolitica ma non per questo monotona.

Il processo di responsabilizzazione per Guy Ritchie rimane sospeso nell’aria, sperando che la prossima volta compia finalmente il passo risolutivo verso quella maturità cinematografica che lo appaierebbe ai grandi del presente e del passato!

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