Arkansas (2020)

Un tentativo mal riuscito di copiare i vecchi maestri

Il poliedrico e brillante Clark Duke prova a sbarcare il lunario in regia, dopo una giovanissima carriera da attore passata ad interpretare in modo esclusivamente parodico ogni ruolo, con pure l’inesploso tentativo di dirigere e produrre una web comedy su se stesso.

Il risultato francamente lascia maldestramente a desiderare, perché il novello direttore d’orchestra si cimenta in un thriller nero visto e rivisto, col sottofondo di giri di droga, tradimenti tra boss e tormenti d’animo tanto cari sia ai Coen che a Quentin Tarantino, se non addirittura a Guillaume Canet o Paul Thomas Anderson, provando perciò a diversificare il prodotto mischiandolo con più varianti, per darne una parvenza da giallo quasi comico, appunto per la sua presenza da protagonista.

A fare da contraltare però è un cast di prim’ordine, che ha spinto Duke a rilevare anche i crediti da produttore, nonostante i dialoghi dei fratelli Boonkrong facciano acqua da tutte le parti e contribuiscano a confondere lo spettatore, perso alla fine della proiezione tra una storia drammatica e sprezzante, un arco narrativo sulla carta ricco di brividi e la recitazione troppo soggettiva e distaccata degli interpreti, che pone il lungometraggio quale ibrido noir burlesco e dissacratorio.

La trama verte sulla combo nata per caso Kyle e Swim, ingiustificatamente imbranato all’eccesso l’uno, quanto sicuro agli estremi l’altro, i quali – senza approfondire personali motivazioni e passato – entrano a far parte della scuderia di Frog, narcotrafficante misterioso (?) del quale non conoscono nulla. La diversità tra le due anime provocherà storture “lavorative” che manderanno a monte i piani della vigilia e comporteranno conseguenze traumatiche per ognuno dei soggetti in gioco.

Faticoso già a metà durata capire chi è chi, a causa di una suddivisione di frame confusa e poco facile, a un’introduzione eccessivamente laboriosa di ogni comparsa e alla coppia Liam Hemsworth/Clark Duke smodatamente pacchiana nello sforzo di emulare i vari Di Caprio, Pitt e Miles Teller, loro sì convincenti nelle performance sui generis a fianco di Jonah Hill.

I due, col primo al solito improponibile nell’esasperare sicurezza fisica e saccenza oltre il suo ruolo, pronto eternamente ad attaccar briga nonostante sia solo un novello corriere della droga, e il secondo forzatamente eccentrico e stravagante, divengono due macchiette la cui invadenza oscura l’invece dignitoso lavoro di Vince Vaughn e Michael Kenneth Williams, l’uno all’ennesima ratifica di una fase di carriera che mette da parte battute e sarcasmo per virare su spietatezze subdole e ambigue da serial killer psicotico, e l’altro perfetto quale boss con sale in zucca.

Se si accetta col sorriso un rientro forzato e sottotono nel cinema d’autore (?) di Vivica Fox, appare altresì imperdonabile la presenza/assenza di un mostro sacro quale John Malkovic, umiliato dal suo Bright ad essere dimenticato troppo in fretta.

E’ infatti Frog l’unico interesse del film, il deus ex machina attorno al quale gira ogni step della narrazione, per merito della recitazione attraente e sospetta di Vaughn, anche se la sceneggiatura deforme ne rovina l’hype negli attimi decisivi.

Il soggetto inoltre, pecca di carenza nell’intelaiatura fra i differenti segmenti, e fa quasi ridere la maniera con la quale i capi vengano gabbati tra loro o come i subalterni non riflettano per niente ad accettare ruoli rischiosi e alleanze pericolose.

Per allungare il brodo poi, risultano al limite dell’inverosimile le liaisons istantanee fra nerd e belle ragazze svelte e scafate, che sfociano nientemeno in amore.

Patetica si rivela la facilità di Frogg a sconfiggere qualunque concorrenza si faccia lui dinanzi nella confusionaria e troppo veloce trasposizione e divisione dei chapter, che dovrebbero invece riassumerne l’escalation criminale, se poi quando c’è da fronteggiare il nemico definitivo ecco che davanti appare l’accoppiata meno smart del pianeta.

Ancor più assurda è la presuntuosa e pretestuosa preparazione al duello terminale, riportando in auge, oltre alla meravigliosa ma sprecata colonna sonora dei Flaming Lips, melodie alla Ennio Morricone e primissimi piani da spaghetti western, che precedono la contesa tra gli ultimi due superstiti, senza però che l’asfittica trama giustifichi minimamente una conclusione così importante.

Le molteplici varietà cinematografiche, con atteggiamenti quasi comici e bizzarri, creano quindi solo disordine e scompiglio rispetto all’originalità delle intenzioni, generando perciò in un gangsters drama come molti altri delle sterili sembianze da commedia nemmeno tanto dark.

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