Waiting for the Barbarians (2020)

Bontà e cultura al servizio dei Barbari

L’interessante romanzo “Aspettando i Barbari” del premio Nobel JM Coetzee viene riproposto sul grande schermo dal regista debuttante colombiano Ciro Ferrara. Anche come pellicola l’attrazione è evidente, dato che la storia fittizia raccontata sotto forma di perdizione desertica in terre oscure e lontane avrebbe di che entusiasmare.

Fra l’Impero e le confinanti popolazioni vagabonde e nomadi, a caccia per di più di piccole migliorie in una vita sfuggente e sacrificale, c’è un signorile magistrato comandante prossimo al pensionamento. La sua figura vige da trait union fra le due culture all’antitesi, e i suoi metodi dotti e gentili hanno avuto lo scopo decennale di mantenere i rapporti diplomatici ed evitare scorribande violente degli uni e le reazioni armate degli altri.

La quiete protratta lungamente viene interrotta dall’invio nell’avamposto di un terrificante e ostile colonnello, lui invece risolutore di azioni in modo violento e feroce, servendosi delle torture fisiche verso i barbari per estorcere verità più o meno genuine e capire se la loro presenza limitrofa costituisce minaccia e timori.

La nicchia che una storia così intrigante accende, confermata da una bellissima fotografia di fondo e una musica drammaticamente incessante, italiana come la casa di produzione, ha portato quest’ultima ad incamerare un campione del calibro di Mark Rylance nel ruolo dell’indiscusso protagonista.

Il formidabile attore ripaga con una prestazione altamente intimistica e commovente il ruolo affidatogli, perdendo progressivamente le sicurezze che il suo “democratico” comando ha tenuto saldo così a lungo, dimostrando forse a se stesso quanto le metodologie prodi e culturali non possono aver vita continua negli scenari militari.

La lontananza col mondo reale accresce poi una sensazione traviata sui normali rapporti umani, dato che all’interno delle mura da lui controllate pacificamente più che autoritariamente, è facile confondere l’amore col sesso, concubinato con relazione sentimentale, confidenze di prigionieri amichevoli con ordini democratici e vita di caserma con una quotidiana esistenza comune.

Allorquando i “nemici” intestini fanno capolino, creando un clima di terrore e riscrivendo la leggenda del magistrato dentro l’interland imperiale, d’un tratto traditore, pessimo condottiero, discordante con la cultura protettiva di un esercito e legato ai migratori rivali, ecco che la sua psiche di uomo valoroso e liberale cede il posto a debolezze intrinseche, inutili nel poter attuare qualunque tipo di reazione e distanti persino dal modus operandi dei capi nomadi, nonostante le offerte d’argento o la liberazione di donne oggetto di martiri e vessazioni.

La sofferenza e sconfitta primaria di un comandante uomo comune, ha l’apice nell’assistere al cambiamento d’umore perfino dei suoi “coinquilini”, ora eccitati e gasati nel constatare le nuove truculente metodologie psicofisiche verso l’ormai antagonista randagio di frontiera, senza sapere che tutto ciò costituirà la scintilla per un futuro mortale e dispotico!

Purtroppo il film, cotanto personalizzato su un’unica figura, sebbene interpretata magistralmente, tende a tediare in maniera esagerata, specialmente se al suo intorno non si scava troppo per trovare vicende altresì interessanti, soprattutto sulla vita degli erranti ribelli e le abitudini delle loro donne, racchiusi esclusivamente sotto forma di vittime sacrificali sia in tempi di pace che dopo.

Se l’entrata in scena di Robert Pattinson, boia sui generis, innalza la tacca seppure per brevi momenti, al limite della macchietta risulta invece l’azione di Johnny Depp, ormai lontano dai fasti di una volta e caricaturale nell’apporre il suo marchio al bieco colonnello.

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