Light of My Life (2019)

Una splendida avventura d’amore in un futuro distopico

In un futuro quanto lontano non si da a sapere, un uomo e sua figlia scappano ovunque e da chiunque, dopo che una terribile pandemia ha spazzato via la maggior parte del genere femminile, lasciando l’altro sesso rabbioso e impazzito per essere rimasto solo! Il compito del padre è schivare la violenza dei sopravvissuti e raggiungere una tanto agognata salvezza in località dove le poche donne rimaste siano accudite e al riparo!

Casey Affleck debutta alla regia di un lungometraggio, dopo l’irriverente e provocatorio “Joaquin Phoenix – Io sono qui”, dirigendosi in modo sopraffino e desueto rispetto alla filmografia antecedente, nella quale i Kenneth Lonergan, Scott Cooper, Andrew Dominik o il fratello Ben di turno ne avevano esaltato la bravura e un’intensità drammatica, ribelle e pusillanime, lasciandoci però nel dubbio su una eventuale performance di livello con sceneggiatura parlata ad personam, abbandonando perciò i silenzi e le eccellenti esposizioni d’animo ma prettamente intuitive e introspettive, che lo hanno reso celebre e da oscar.

E’ d’altronde se stesso che stila i dialoghi di “Light of My Life”, anche questo un esordio, visto che i precedenti risalivano appunto al mockumentary col suo ex cognato e alla coabitazione nell’interessante “Gerry” di Van Sant.

E’immediato infatti il cambio di rotta, dallo start nel quale padre e figlia sono appartati in sacco a pelo, alle numerose case e location di fortuna dove la coppia troverà un’apparente protezione fino alle scene finali, quando il ruolo su chi accudirà l’altro si invertirà. Sono qui proprio i dialoghi e gli improbabili racconti che Casey padre racconta alla sua piccola – una credibilissima Anna Pniowsky, perfetta partner in crime alla terza esperienza cinematografica – il fulcro del film, discorsi su ciò che è stato e non ci sarà più, metafore sulle coppie ancora esistenti (gli animali nell’arca di Noè) o storie su un futuro desiderato ma impossibile da realizzare, per una bambina costretta a camuffarsi da maschio e diventare grande prima del tempo, trovando come unica difficoltà quella di spiegare nascite che non avvengano in laboratorio.

Affleck dimostra perciò di saper scrivere e reggere da solo una trama cotanto complessa e affascinante, limitandosi “solamente” ad analizzare i rischi che l’estremo amore di un genitore affronta per salvare un figlio, riportandoci alla mente l’attualità dei drammi che si consumano in mare. Lo fa in modo dolce e rassicurante nell’intimità, ma pure fermo e veemente allorquando impone di obbedire e recitare la parte, evitando persino travestimenti di nascosto!

La soggettività delle inquadrature fa trasparire ansia e paura su qualcosa di terrificante che prima o poi avverrà e carpisce la disperazione che aleggia nell’aria e il senso di mal fiducia verso la brutalità della razza umana. Tale modo di gestire la macchina da presa evita una scenografia sui generis e classica per uno sci-fi post-dramma, preferendo il calore dei primi piani e di una scrittura spirituale agli effetti speciali che le macerie di un mondo apocalittico altresì richiederebbero, accontentandosi di affidare il soggetto del film ad una continua fuga attraverso la meravigliosa natura della British Columbia canadese!

Belli sono pure i pochi ma toccanti flashback, che in progressione rimembrano la scoperta del virus, il confronto con la malattia e l’angoscia per l’incombente morte della moglie!

Rilevante anche la simbologia affidata alle finestre, viste non come sbocchi per panorami affascinanti, nel caso specifico boschi, laghi, montagne e neve, ma mezzo per evadere e avventurarsi in mezzo agli alberi a mo’ di prede nella giungla.

Lo stesso finale, all’apparenza semplicistico, riversa enorme importanza per il significato della storia, dando un onirico cambio della guardia tra i due protagonisti e innalzando tutto ad una splendida avventura d’amore!

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