The Lost Daughter (2022)

Angoscia e solitudine di una madre lontana

Maggie Gyllenhaal riadatta la scrittura del bellissimo romanzo “La Figlia Oscura” di Elena Ferrante con fare ipnotico e sfuggente, esaltando ad assioma inequivocabile il senso di angoscia e perdizione di Leda, l’impeccabile Olivia Colman la cui recita emozionale innalza un’opera di difficile attuazione, stavolta professoressa in vacanza solitaria nelle spiagge greche e dai ricordi familiari affievoliti da rimpianti incessanti.

La sceneggiatrice/regista si avvale di meravigliosi commensali dall’acting introspettivo e fuori dalla convenzione hollywoodiana, istruendoli ad avvicinarsi ai costanti rammarichi della protagonista ma a restarci poi a distanza di sicurezza, in modo da elevarne a dismisura afflizione ed inquietudine.

La Gyllenhaal palesa coraggio e ardore buttandosi al debutto dietro la cinepresa con un romanzo difficilissimo da adattare sul grande schermo, vista la trama pacata e a rilento, tendente a silenziare le scelte di vita per sovraccaricare le pulsazioni e i legami affettivi, presenti o passati, conquistati o perduti.

L’opera supera uno scoglio così estremo e rende onore a un mondo infine positivo nonostante i rimorsi che possono denudarlo, dove a risplendere sono i ridondanti battiti del cuore e la vitalità dei corpi!

Lo fa magari restando sì un po’ troppo ancorata ai dialoghi originali, ma mischiando bensì la realtà degli accadimenti a una fantasia quasi magnetica e seducente, sfruttando degli azzeccati flashback e una regia intimistica che scorta verso vette infinite la gestualità di un’inarrivabile superstar come Olivia Colman, il cui intenso, drammatico, tormentato e smarrito piglio visivo è di una bellezza drammatica disarmante.

La camera perciò punta a scrutare in un primissimo piano dinamico le verità che inequivocabilmente sguardi soffocati dal rimpianto emanano, affidandosi ad allegorici oggetti per interiorizzare le proprie debolezze e per tentare di recuperare – chi può ancora farlo – affetti poco vissuti.

Bambole, spille e arance diventano dunque simboli per riacquistare ricordi perduti ed arrivare allo scontro più virulento con la depressione dell’animo.

La solitudine viene quindi utilizzata come un contrappasso introspettivo che divide Leda dalla pace interiore di cui ha certamente bisogno al distacco familiare che ne fa però una donna a metà, flagellata da continui sbalzi d’umore e da recriminazioni spirituali.

Il film è uno spaccato di esistenza femminile lacerata da ciò che non verrà più, un’angoscia di vivere all’ombra di una maternità goduta poco, spiando esistenze altrui e cercando infine di recuperare disperatamente tutto il tempo sprecato lontano da casa.

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