The Covenant (2023)

Onore e dignità per il nuovo Guy Ritchie

Guy Ritchie irrompe nella scena bellica hollywoodiana con un’opera inedita per la sua filmografia istrionica, un “unicum” inaspettato che porta però a compimento nel modo più egregio possibile.

La narrativa di The Covenant si rifà alla guerra in Afghanistan post 11 settembre, dove un gruppo di uomini ha il compito giornaliero di stanare esplosivi e munizioni e distruggere i capannoni di fabbricazione talebana.

Gli (anti) eroi di questa storia sono John Kinley, sergente alla guida del plotone, e il nuovo interprete Ahmed, appena “assunto” in sostituzione del precedente caduto, in quello che – e questo lungometraggio lo spiega benissimo – era un ruolo fondamentale per ambedue gli schieramenti, gli uni per apprendere lingua e segreti degli infimi terroristi e gli altri per capire i motivi delle defezioni di chi una volta militava anche solo ideologicamente nel proprio schieramento.

Il regista gioca sulla diversità caratteriale dei due protagonisti, gli entrambi ottimi Jake Gyllenhaal (as usual) e il sorprendente Dar Salim, disillusi giocatori di una partita che non finirà mai ma che lascerà infine al primo gli stessi segni indelebili che in passato hanno lacerato il secondo!

Disillusione mista a onore e dignità sono quindi le qualità inedite che il regista mette sul piatto, sfruttando anch’egli le perfette scenografie dei tempi moderni, un montaggio sonoro ferocie e le credibili location mediterranee di Alicante, Sax, Villajoyosa e Zaragoza, perfette nel riprodurre le oscure catene montuose afghane, il deserto e le basi aeree militari.

Un rapporto mai banale, misericordioso e smielato fra i due andrà crescendo di minuto in minuto, al pari del decoro umano e del rispetto fra uomini agli antipodi ma simili d’animo.

Gyllenhall riscopre così le effigi da militare underdog, un soldato dalle doti umane inaspettate che tirerà fuori al momento giusto, quando una volta rientrato in patria ferito, vorrà scalare nuovamente le tragiche vette afghane per liberare il misterioso e taciturno collega a cui deve la vita.

Se il suo protagonista piace e ammalia empatia per i numerosi errori a cui incappa, fra spedizioni fallimentari, imboscate e catture a cui tattiche approssimative dei superiori lo mandano incontro, è Ahmed colui sul quale puntare per una redenzione completa, lui che sbagli simili e fatali li ha già commessi in passato, militando nell’altra parte e pagandone il prezzo in modo tragico!

Il primo frame del film è una sorta di omaggio che Guy Ritchie fa a se stesso, cedendo ai suoi commensali molteplici dialoghi surreali e satirici che lo hanno reso celebre.

Poi però, in sella a campagnole nel mezzo di equivoci deserti o nascosti fra monti lugubri e tetri, si mette da parte per trasmettere con irrequieti e spasmodici piani sequenza misti ad inquadrature aperte e campi lunghissimi la paura dei soldati durante i numerosi agguati.

Nei periodi calmi la pellicola esaspera anche le attitudini a tradire che un popolo disincantato ma soprattutto deluso e disingannato da un regime sovversivo e spietato attua, chi accettando vilmente denaro in cambio di informazioni e chi senza baratto, perché saturo di una vita timorosa e speranzoso per una pace che oggi sappiamo non arriverà bensì mai!

Azione e dramma confluiscono in simbiosi, ma sempre affiancate dalla prode postura di John e Ahmed, costretti a fuggire insieme da castighi e torture rivali, senza tuttavia il bisogno che l’uno confidi all’altro i tormenti interiori e la nostalgia familiare che invece li attanaglia ossessivamente.

Un film incentrato sostanzialmente sull’odio e il cinismo talebano e l’ingenuità americana in terra nemica, non poteva esimersi però nel riportare alla amara realtà i fatti dell’ennesima guerra inutile e tatticamente sbagliata, dove i soldati a stelle e strisce il più delle volte e senza alcuna protezione vengono mandati allo sbaraglio in cerca di armi e bombe.

Nei titoli di coda Ritchie sottolinea infatti le innumerevoli perdite interne e il grottesco ritiro recente statunitense dall’Afghanistan, che dopo oltre 20 anni di sorveglianza caratterizzata da moltissimi corpi e anime rimasti per sempre a giacere sui sanguinari massicci in gelidi inverni e torride estati, restituisce oggi il pieno controllo antagonista su tutta l’area.

Un lavoro semplice e fra i tanti sul genere trasmette comunque un alone di asciuttezza e dignità di cui se ne sentiva bisogno, e promuove perciò il regista in questa inconsueta scorribanda su territori a lui finora sconosciuti.

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