Judy (2020)

L’omaggio a una stella per sempre bambina

Renèe Zellweger torna all’apice grazie ad una straordinaria interpretazione che rende giustizia alla storia di Judy Garland. E’ forse lei il prototipo primordiale di giovanissima stella, in seguito persa verso depressioni fisiche e psicologiche, dovute al troppo spesso invadente cinismo dello showbusiness mondiale, capace di elevare a superstar ragazzi non ancora in grado di sostenere fama e frenesia da successo e con la stessa facilità a metterli poi in cassaforte e nel dimenticatoio.

E’ proprio questa fase, quella delle difficoltà a riabilitarsi, che viene portata sul grande schermo dal quasi debuttante Rupert Goold, alla seconda regia dopo l’interessante True Story, riprendendo la piece teatrale di Peter Quilter e affidando ogni tipo di libertà espressiva alla diva statunitense, che incarnerà alla perfezione i molteplici tormenti d’animo di “Judy” e riceverà in premio il sacrosanto secondo Oscar di una carriera piena di consensi, ma da parecchio tempo ferma al palo. E’ sicuramente grazie a questo stato interiore della Zellweger – uscita cioè quasi di scena dai salotti importanti di Hollywood – la condicio sine qua non dell’eccellente performance, dovuta – chissà – alla similitudine nel doversi riscattare al pari del suo personaggio.

L’abuso di barbiturici e farmaci vari, un quotidiano eccesso alcolico e la tristezza di dover condividere un ormai difficile ruolo di genitore separato e squattrinato, comporteranno le cause fondamentali della prematura morte a 47 anni. Saranno i numerosi flashback della precoce celebrità di “Dorothy”, collegati a splendidi frame sullo sguardo attonito della Garland matura, a costituire la rappresentazione spirituale che la diva conserva indelebile nella propria mente, e frutto di cotanta tristezza. Dover impersonare tutte le protagoniste anche fuori dal set, mantenere disciplina e rigore, evitare cibi grassi e rinunciare allo spasso che una tenera età abbisogna, comprese le frequentazioni coi Mickey Rooney di turno, sono infatti prezzi troppo alti da pagare per una bimba, e che protrarranno a lungo e nel futuro più lontano delle decisive crepe, le quali ne distruggeranno anima e corpo per colpa dello sfrenato consumo di anfetamine e alcool, procuratrici inoltre di completa astinenza da sonno e riposo!

Spettacolari sono trucchi, costumi e acconciature, accoppiate a una scenografia assolutamente credibile per il periodo, così come una doppia fotografia, perfettamente in voga con le due epoche, quella degli albori prima e della decadenza a fine anni ‘60 dopo, ricostruisce in modo mirabile sfumature da “Mago di Oz” e luci della ribalta americane e londinesi.

Il film è costruito – ovviamente – su un unico dettaglio intimistico, quello della Zellweger, che perciò da un lato illumina la scena dall’inizio alla fine, ma dall’altro oscura chiunque si inserisca nella trama, dando la (voluta) piattezza e monotonia che un biopic così soggettivo è destinato ad avere.

Meravigliosa è la malinconica sensazione che ci lascia in dote rappresentando le problematiche di una madre non più stabile fisicamente ed economicamente, ma affettivamente dipendente dai suoi figli piccoli, e lo sconcerto angosciato allorquando deve accantonarli per recuperare crediti nell’ancora magnanime Londra, ultima via d’uscita di una vita quasi persa, per poter restituire proprio a loro una dignità finanziaria non più percorribile nella terra dei sogni, dove soldi e speranze sono stati sperperati fino all’ultimo. Favolosa e realistica in egual misura è l’ansia da prestazione una volta ricominciato il tourbillon di concerti, il piglio insicuro e terrorizzato di chi non può fermarsi, i tic visivi, il panico e lo sgomento di interagire con chi ti ha abbandonato, la sfiducia verso chi ti assiste solo per ricavare vantaggi ed infine la tranquillità che esclusivamente una pasticca può restituirti, per uscire a testa alta fuori da un camerino e fingere gioia e beatitudine!

Sarà l’amore, l’ennesimo, a riportare in scia una psiche costantemente in bilico, lasciandoci sperare che il passato possa ritornare più felice, senza restrizioni, ma anzi con la libertà di poter scegliere un’esistenza serena. La storia e la fine di Judy Garland però la conosciamo, e quando ci chiederà di non dimenticarla nell’ultima prova d’autore, il rimpianto di ciò che non è stato ma sarebbe potuto essere ci assale morbosamente.

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