Capone (2020)

Le debolezze di Capone deludono le attese

Intrigante e non poco, nonché tanto attesa, l’idea del rampollo californiano Josh Trank di riportare in auge le gesta di Al Capone, nel modo meno atteso e privo dell’iconico e sconvolgente glamour che la propria carriera criminale ha portato in essere!

Saranno infatti gli ultimi anni della sua esistenza, raccolti nella fantasmagorica e lussuosa tenuta a Miami, quelli che il regista/scrittore/montatore 36enne tratterà, quando una sifilide lasciata nei tempi progredire, porterà lo scarface newyorchese celebre a Chicago alla demenza e ad una non preventivata debolezza e fragilità, difficile da accettare persino dalla sua gigantesca famiglia allargata!

Dunque un’opera dalle alte aspettative affidata a un regista giovane, che sveste i tanto amati panni fantasy per dedicarsi al gangster movie, dividendosi il progetto partito già parecchio tempo addietro con un one man show del calibro di Tom Hardy, perentorio e camaleontico manierista, capace di un trasformismo spiccato e generose piroette attoriali.

L’occasione di primeggiare in un altro dei tanti ruoli “mutanti” con aspirazioni da oscar viene colta al balzo dallo spumeggiante performer londinese, che quindi dopo Bronson, Warrior, il Bane di Nolan, Mad Max, i gemelli Kray e Venom, si riveste di una nuova maschera con la quale dominare la scena per l’interezza del lungometraggio, lo stesso fatto nell’eccellente e però finora unica grande prova sui generis espressa in Locke, stupefacente ed ansiolitico monologo a firma Steven Knight!

Seguire i celebri Jason Robards (1957), Rod Steiger (1959), Ben Gazzara (1975) e Robert De Niro (1987) non risulterà impresa facile, ma anche distanziarsi dallo Stephen Graham di Peaky Blinders, rissoso e alle prime armi, darà al lavoro di Trank una difficile collocazione e alle gesta del protagonista un ambiguo giudizio conclusivo, frutto di eccessive forzature a discapito di una trama del tutto assente per lunghi tratti e accesa troppo tardi, restando a metà tra un lavoro esclusivamente biografico e un poliziesco che non arriva allo scopo.

Gli errori nella scrittura della storia e l’assenza di dialoghi diversi dall’introspezione, uniti ad una regia zoppicante e noiosa, vanno difatti pari passo con quelli improvvisativi di Hardy. Quest’ultimo drammatizza il canto del cigno del suo Capone al limite dell’onnipotenza, tra incubi e rimpianti quasi lisergici per gran parte dell’oretta e quaranta di proiezione, e un arco narrativo asfittico e appassito si dimentica di apporre appeal al racconto, lasciando le briciole all’interessante indagine della polizia su una “cassaforte” milionaria nascosta e dimenticata (?) dall’ormai latente memoria del boss.

Hardy non si risparmia, vero, ma per l’ennesima volta e come indicato poc’anzi, si ritroverà a recitare nuovamente un biopic in “costume” da dominatore egocentrico, lasciando sì l’anima nel suo Fonzo, ma escludendo dal suo fianco i numerosi commensali invitati al banchetto, su tutti il mentore Johnny di Matt Dillon, l’interessante luminosità del quale rimane fine a se stessa, e la prode e genuina onestà di Crawford, sfruttata al minimo e chiusa nel cassetto proprio quando l’ottimo Jack Lowden la sta per far deflagrare.

Un plauso particolare – isolato – spetta a Linda Cardellini, pregevole conferma come donna del boss dopo la grandiosa prestazione di Green Book: è lei infatti che bypassa il grossolano ed invadente monologo del “marito”, divenendo involontariamente il contenitore sia di umanità che freddezza, rigore e gentilezza, amore e odio ed infine nostalgia dei tempi che furono appaiata a consapevolezza della fine dei sogni, lasciandoci in un meraviglioso oblio derivante dal rientrare nella normalità e chiudere col lusso ma pure con la morte, e se tutto ciò rappresenti un male o un bene, sensazioni che avrebbe dovuto darci il capofamiglia!

Tutto questo è un peccato, vista la notevole filmografia del protagonista e superstar, abile eccome a farsi da parte e magnanime nel dividere frame con colleghi d’elite, come visto in Inception, La Talpa, Chi è senza Colpa, Revenant o Dunkirk, pietre miliari del cinema contemporaneo rese tali anche dal suo prezioso e determinante contributo.

Bocciatura perciò per l’inconcludente resoconto sul fine vita di uno dei maggiori e leggendari criminali di sempre, un film che non termina la corsa perché non riesce a catalogarsi fin dall’inizio e dunque nemmeno a partire!

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