Tenet (2020)

Troppi ostacoli nella corsa all’indietro di Nolan

La parola Tenet rappresenta l’uguaglianza tra la fine e l’inizio di un periodo, ed è su questo mantra che Christopher Nolan baserà il suo rientro in pompa magna nelle sale cinematografiche, trasponendo un action movie all’indietro nel tempo per risolvere niente meno che un possibile conflitto inter planetario.

Un agente Cia, giusto e prode, sarà l’eroe del nuovo film del regista campione, cercando di combattere un magnate sovietico pronto ad affossare il mondo intero, utilizzando tecnologie che invertono il flusso temporale delle cose; la sfida avverrà attraversando l’occulto universo dello spionaggio internazionale, mettendo alla prova se stessi e i propri partner in crime.

John David Washington (figlio d’arte) e Robert Pattinson sono i pupilli per l’occasione, intrepido e mai sopra le righe il primo, al solito perfetto nell’equivoca, misteriosa ma anche guascona postura il secondo. A loro il classico cast di stelle alla corte del re, con la splendida Elizabeth Debicki e un troppo serioso e mai così spregevole Kenneth Branagh a completare il quartetto principale. Generoso e positivo sarà il loro acting, ma a fregarli ci penserà il soggetto della pellicola, sorprendentemente confusionario e superficiale.

Dopo Dunkirk, nel quale la consueta invadenza in regia aveva forse regredito le potenzialità di una sceneggiatura drammatica e sofferta che una avventura talmente dolorosa avrebbe dovuto estrapolare, Nolan ritorna a cimentarsi con i tanto amati viaggi nel tempo, concedendo però maggior svago alla narrazione, senza ovviamente accantonare le sfarzose e meravigliose piroette artistiche come detto un po’ troppo spesso magniloquenti, e le attraenti location in giro per il pianeta, tipo Danimarca, Estonia, UK, USA, India, Norvegia e Italia.

L’atmosfera di base è quella alla Inception, mentre le innumerevoli traiettorie nel presente, passato e futuro non possono che rimandare a Dark, resistendo però a distanza sia dall’onirico scenario dell’uno che alla casualità di eventi nell’altro; in Tenet infatti, il costante DèJà vu non si percepisce astratto, bensì realistico!

Il lungo periodo passato a scrivere titoli di scena e dialoghi (si parla di almeno 4 anni) non giustifica tuttavia il risultato conclusivo, che vede un arco narrante sofistificato da tradizione ma poi troppo banale e assolutamente lontano dall’originalità preventivabile ad un cineasta simile, sebbene affascinanti se non seducenti risulteranno le conversazioni fra interpreti.

I tagli e i montaggi del passato, con inquadrature e dettagli soggettivi, unite a piani e campi trepidanti e affannosi, si mettono per una volta da parte e danno corda a una trama e un filo espositivo sia complessi che scorrevoli nelle intenzioni, anche se vivaci e coinvolgenti.

Purtroppo tutto ciò comporterà un fallimento epico, dato che per condurre al termine la missione in una durata minima rispetto a quella di una serie, quantunque lunga quasi due ore e mezza, inesattezze e compromessi pacchiani consegneranno al finale un’ovvia conclusione, dando alle certezze che ogni personaggio porta con sé un colpo letale, a causa delle molteplici giravolte caratteriali e comportamentali che ne diminuiranno appeal e fiducia, col novello 007 disposto persino a barattare il compito primordiale per la salvezza della sua amata – solo nelle intenzioni recondite però ben visibili allo spettatore – e lei, bella e sensuale ma inspiegabilmente legata al suo aguzzino, pronta a concedersi a lui psicologicamente sin da subito, senza mai metterlo alla prova.

Inoltre la facilità progressiva a ottenere rivelazioni dalle persone giuste al posto giusto e la scaltrezza nel risolvere enigmi fino a poco prima inaccessibili, diminuiscono il senso di un prodotto in principio di nicchia, ma che così facendo rimanda semplicemente a un blockbuster colossal alla Roland Emmerich, del quale troppo simile appare la disposizione dei frame, con l’esplosivo, spiazzante e al limite del catatonico action iniziale e un arco narrativo eccessivamente arzigogolato per portare poi alla resa dei conti definitiva. Il boss vicino alla morte che vuole portarsi nella tomba il mondo intero perché in suo possesso esemplifica ogni nostro discorso.

Nolan fallisce il passo successivo a quello per cui è stato forse il più grande rivoluzionario sui generis dell’ultima epoca, quando sostituiva con la dinamica azione avanti e a ritroso della macchina da presa e il surreale modus operandi della sceneggiatura le tante spiegazioni che i suoi ambiziosi lavori pretendevano, lasciando l’utente con numerosi dubbi e interpretazioni individuali.

Entropia, inseguimenti avveniristici, movimenti a tenaglia temporale, esplosioni invertite e algoritmi rappresenteranno tuttora dei diagrammi inaccessibili dietro ai quali Nolan si nasconde per dominare gli eventi, ma è il tentativo di normalizzazione a subire un brusco step, che anzi pone molte perplessità sulla reale idoneità del direttore ad allontanarsi dai propri canoni standard e divenire invece uno story teller all around, capace di unire l’ormai iconica regia brillante, visionaria e ansiolitica con un racconto logico e ordinario: il mirino verso miti contemporanei quali Spielberg, Kubrick e Ridley Scott andrà dunque rivisto alla prossima occasione.

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