Jungleland (2021)

Poche emozioni per un gangster movie visto e rivisto

Due fratelli non riescono a vivere un’esistenza normale, fatta di lavori umili in fabbriche di cucito, per via dell’indole truffaldina del maggiore, da sempre in cerca di sbarcare il lunario della malavita sfruttando la forza del minore, ex pugile professionista che non ha approfittato dell’enorme talento a disposizione. Vecchi (e nuovi) debiti li costringeranno a disobbligarsi con un boss locale, scortando una ragazza nel Nevada ed organizzando loro degli incontri sui ring vicino Las Vegas.

Un soggetto spoglio e senza mordente non aggiungerà niente di nuovo sul fronte gangster movie, aiutato pochissimo da un filo conduttore scontato sin dall’inizio, quando si intuisce immediatamente che il percorso che i tre giovani si apprestano ad effettuare è senza via d’uscita!

Lodevoli impegno e passione di Charlie Hunnam, che sfrutta un copione ad arte per fare il bello e cattivo tempo, spaziando nell’intimità di un personaggio (Stanley) schiavo però di connotati visti e rivisti nei film a delinquenza contemporanea, forzando perciò a dismisura le proprie ossessioni e tormenti.

Questo comporta problematiche sia nello sviluppo della storia interpersonale che in quelle altrui, dominando esageratamente la scena e lasciando così le briciole all’altresì interessante Lion di Jack O’Connell, il Kaminski più piccolo succube delle nefandezze familiari e sempre prodigo a rimettersi sulla carreggiata (e sul quadrato) per recuperare i disastri del fratello.

Identico discorso per Sky, giovane vittima di giochi più grandi di lei, sebbene fra i tre l’alone da bella e dannata le spetti di diritto, nonostante il difficile privato che l’ha condotta allo sprofondo verrà solamente accennato.

Tutto ciò è un peccato, perché se azione e thriller – carenti all’inverosimile – sono sacrificati a vantaggio di un intrinseco dramma domestico, i costanti silenzi degli uni rispetto alle esplosioni continue dell’altro non approfondiscono alcun tipo di peculiarità comuni e rendono quindi poco credibili eventuali rese dei conti di gruppo!

La trama difetta in fluidità per la scelta del regista e sceneggiatore Max Winkler (figlio d’arte di Henry) di evitare qualunque riferimento al passato, che possa dunque giustificare il vagabondare del trio tra vita e morte.

Per questo le forzature di Hunnam, non aiutato da un arco narrativo per l’appunto avaro di informazioni, sono spesso rese pacchiane da una fisicità troppo splendente per appaiarsi alla ribelle afflizione del Micky Ward di David O. Russell, e da sfaccettature non abbastanza ironiche da avvicinarsi al Mickey Lo Zingaro di Guy Ritchie, divenendo quasi caricaturale quando una dentatura dorata fa capolino durante le periodiche promesse di rinascita verso l’inerme congiunto.

Non credibili poi risultano la liaison fra Lion e Sky – immediata e poco celata – e le grossolane sfortune che capiteranno durante il viaggio verso gli inferi, due stratagemmi per giustificare l’improbabile unione del terzetto fino al drammatico epilogo!

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