Judas and the Black Messiah (2021)

L’impossibile redenzione di Giuda

Shaka King debutta alla regia e scrive i dialoghi di un imponente film propagandistico e impavido, per tentare di restituire dignità alla morte di Fred Hampton, leader maximo delle Pantere Nere e Black Messiah dalle prediche infuocate, oratore e giustiziere sui generis contro le dottrine razziali dell’America di Edgar J Hoover, nella quale il “negro” pericoloso andava ammainato a tutti i costi.

Obiettivo e target perfettamente colpiti, dato che un tale esordio col botto porta ai premi maggiori di Hollywood molteplici nomination, fra cui la meravigliosa fotografia edulcorata per riprodurre i ribelli sixties, quella sul miglior film nettamente meritata e quelle ai due protagonisti (non), l’ormai certezza Daniel Kaluuya e la piacevole sorpresa Lakeith Lee Stanfield, ambedue ottimi e sul pezzo!

Il primo riproduce la ferocie ma pure politica verve del giovane condottiero che fa proseliti sui movimenti per i diritti civili delle minoranze, e l’altro ricopia le “gesta” di un novello Giuda, alias William O’Neal, infiltrato dal come al solito ambiguo e imperscrutabile Jesse Plemons, ammaliante agente FBI che offre i 30 denari per risparmiargli grane e fornire salvacondotti ad una vita da ladro e farabutto.

E’ la recitazione del trio a coinvolgere lo spettatore inerme di fronte a tanti soprusi sotto banco, coadiuvati dall’Hoover di un irriconoscibile Martin Sheen, pregno di rabbia e protuberanza, e da una convincente Dominique Fishback, compagna di vita e ideali dell’arringatore nero!

C’è come detto molta politica nelle sue prediche, ciò che lo differenzia dai parlatori popolani, e vocaboli quali socialismo riferite alle ragioni di un povero fanno breccia non solo verso i fratelli armati di spranghe e pistole, ma pure nel ceto medio discriminato, i solidali di altre sponde (Lords, Crowns e Patriots) e persino i traditori all’interno delle chiuse, O’Neal in primis.

Se Kaluuya eccelle nel trasporre fede e aspirazione di un politicante armato, affiancandogli sovente disperazione e una commovente postura dopo i numerosi scontri tragici e impari con i “maiali” in divisa, altrettanto suggestivo si palesa Stanfield nell’identificarsi incalzante a mo’ di allettante canaglia nel suo Giuda dandy, pian piano che entra in conflitto con la propria coscienza, scissa fra il ricatto di una libertà accomodante, fatta di soldi, cibi prelibati e ricchezza, e una giustezza di intenti che progressivamente dilaga nella sua ormai anima perduta.

Impossibile d’altronde non diventare adepti di un rivoluzionario ante litteram e primo seguace del Malcolm X che fu, il quale ad un ritmo sì marcato ma pure cadenzato simil gospel, diffonde in maniera scandita una cultura protestante e avversa alle numerose, costanti e devastanti iniquità della classe dirigente a stelle e strisce, colma di malvagità, ipocrisia e non ultima una bigotteria latente con la quale motivare il degrado sociale e i tantissimi delitti dei desaparecidos di colore!

L’efficace pellicola della King tratta gli aspetti più crudi di un’epoca tutt’altro che superata, e l’impossibilità di manovra e redenzione di un nero ai margini, manipolato dal mainstream perbenista che lo illude prima e disillude poi, ponendogli dinanzi una realtà effimera e priva di valvole di salvezza, se non quella dell’autodistruzione al termine di un’esistenza infame a cui lo ha costretto.

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