A classic horror story (2021)

Nella recensione sul sito “Gli Spietati”, Giuliano Sangiorgio chiudeva il suo scritto sul film horror “Shadow” di Federico Zampaglione scrivendo: ” ..oggi, nel nostro paese, ogni goccia di sangue è d’oro colato”.
Di sangue in “A classic horror story” invece ce n’è parecchio.
Un film horror duro e puro, che cita almeno altre venti pellicole della storia del cinema, ma che tramite un bel pò di twist di sceneggiatura è a suo modo originale.
Cinque persone viaggiano all’interno di un camper nell’entroterra calabrese.
Un incidente metterá fuori uso il loro mezzo di trasporto e i cinque si ritroveranno in un bosco sperduto, dove troneggia una sola inquietante abitazione.
La follia che spinge gli assassini del film a commettere le più assortite atrocitá (occhi cavati dalle orbite, gambe spezzate da un mega martello, chiodi infilati nelle mani, gole tagliate), proviene dall’antica leggenda calabrese di Osso, Mastrosso e Carcagnosso.
Essi erano tre cavalieri spagnoli che maturarono tutta una serie di regole e codici comportamentali fondati sulla violenza, l’onore e l’omertá, codici che contraddistingueranno le organizzazioni criminali mafiose italiane.
Osso fondó Cosa Nostra in Sicilia, Carcagnosso la ‘ndrangheta in Calabria e Mastrosso la Camorra a Napoli.
De Feo e Strippoli rimaneggiano tale leggenda dandole connotazioni ancor più orrorifiche e mitologiche, spingendo cosí il film sui territori del folk horror, recentemente riportato in auge da Ari Aster nel meraviglioso “Midsommar” e ancor prima da Robert Eggers nel bellissimo “The VVitch” e da Pupi Avati nel discutibile “Il signor Diavolo”.
Come in quasi tutti i film dell’orrore la caratterizzazione psicologica dei personaggi è praticamente azzerata, o meglio è profondamente archetipata: la bella e fragile che poi si rivela una coraggiosa guerriera, lo sfigato che nasconde più di un segreto, la coppia innamorata… tutti stereotipi che diventano carne da macello, vittime di torture degne di uno splatter anni ottanta.
“A classic horror story” è un gioco metacinematografico che non rinuncia nemmeno ad alcune spruzzate di ironia (anche se a volte quest”ultima risulta involontaria), è un’opera tecnicamente ineccepibile: i registi sanno perfettamente dove piazzare la MdP e come usare gli spazi scenici per creare una palpabile tensione, le scenografie sono particolarmente azzeccate, la soundtrack è disturbante, mai invadente e si fa geniale nell’utilizzare canzoni melodiche italiane conosciutissime (Gino Paoli e Sergio Endrigo) snaturandole e rendendole spaventose, la fotografia è nitida, così da rendere chiaro l’orrore che serpeggia nel bosco (debitore in questo caso al magistrale lavoro svolto dal direttore della fotografia Luciano Tovoli in “Tenebre” di Dario Argento).
Gli attori hanno le facce giuste, anche se a volte alcuni dimostrano la loro inesperienza conferendo alla scena che stanno recitando un’aura raffazzonata.
Le critiche alla tv del dolore, cosí come quelle al bisogno di filmare con gli smartphone tutto quello che ci accade intorno, non sono gratuite e fanno sì che il film possegga anche connotazioni sociologiche non indifferenti.
Godibilissimo e spregiudicato, geniale nel non prendersi troppo sul serio e nel suo essere costellato da svariate frecciatine al sistema produttivo cinematografico italiano, e ai luoghi comuni che il pubblico medio ha sugli horror del nostro paese.

“Era una casa molto carina
Senza soffitto, senza cucina
Non si poteva entrarci dentro
Perchè non c’era il pavimento…”.
(Sergio Endrigo)

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