Tha Mauritanian (2021)

La Terra degli Incubi

Sempre prodigo a riportare amare verità e ingiustizie socchiuse nei meandri di ogni buon paese democratico (e non), Kevin Macdonald sfoglia il libro sulle atrocità di Guantanamo a firma Mohamedou Ould Slahi (“Guantanamo Diary”) e viene eletto perciò da una sfavillante produzione a dirigerne l’azione.

Molti sono stati gli esempi onesti di ciò che avvenne nell’isolotto cubano il post 11 settembre, sito nascosto ad occhi e orecchi indiscreti, dove la verità “ad ogni costo” e con qualunque metodologia veniva trafugata allo pseudo terrorista di turno, obbligatoriamente colluso con Al Quaeda!

Il regista scozzese, funambolico nei suoi molteplici documentari e ossessionato dalle vessazioni guerresche, che siano combattimenti o intrighi da Guerra Fredda, rientra quindi in pompa magna nella direzione di un lungometraggio dopo Black Sea, ribadendo anche in The Mauritanian la propria vocazione per i thriller comportamentali.

Il lavoro verte sulla shockante testimonianza di Mohu e della sua ingiusta e lunghissima detenzione a Camp X-Ray, partita col prelevamento in Mauritania appunto, da un semplice controllo, e conclusa più di un decennio successivo con il rilascio, perdendo frattanto la cognizione di vita e affetti, tenuti all’oscuro a quale atroce epilogo l’esistenza del proprio caro andava incontro.

Il significato di rendere pubblico un argomento così crudele e altresì stimolante favorisce l’interesse per questa pellicola, la cui struttura è divisa sostanzialmente in due lunghissimi frame: l’infinita carcerazione di Slahi da un lato, e la lotta di un’intrepida avvocatessa dei diritti civili (Nancy Hollander) dall’altro.

Nel primo caso Macdonald accompagna i tormenti interiori del detenuto con svariati flashback e salti indietro nel tempo, per rimembrare sia al protagonista che a chi segue le difficoltà a vivere serenamente un’esistenza islamista che comunque si palesi contigua al paramilitarismo afghano, malgrado non se ne sfiorino le dottrine! Struggenti perciò appariranno i ricordi pre arresto, l’amore di una madre impaurita e dei congiunti coetanei, i sogni di procreare e costruire famiglia, trasgredendo dunque un inevitabile credo ribelle e anti occidentale, fino ai dubbi su quale parte appoggiare, se quella religiosamente vincolante o l’altra sovversiva per rinascere altrove.

Appaiati e in simultanea gli orrori di una reclusione traumatica, che istigheranno nella mente confusa e ormai dominata di Mohu l’ennesima confessione imposta per ottenere lo scopo: trovare un colpevole!

Il rovescio della medaglia di un America cotanto anti liberale è la giustezza d’animo di una protettrice dell’equanimità, imperterrita nell’offrire assistenza alla vittima sacrificata, che sia effettivamente colpevole oppure innocente, appellandosi per l’appunto alla costituzione a stelle e strisce, e ridando perciò vigore e orgoglio a un popolo cocciutamente diviso tra quel che è giusto a prescindere (l’interventismo militare) e ciò che il diritto di difesa a qualunque accusa pretende!

Generose le performance di Tahar Rahim e Jodie Foster, aiutati da una sceneggiatura improvvisata che consente loro di estrapolare rabbia ed emozioni a seguito delle progressive e costanti angherie verso il detenuto.

Dal regista scozzese tuttavia ci si attendeva più thriller o almeno pathos nel trasporre le torture, trattando magari maggiormente le relazioni intime nate a Guantanamo fra prigionieri o finanche carcerieri, esaltando quindi la psiche distorta sia di vittime che carnefici, e qui solo accennate.

Lo stesso terzo incomodo, il colonnello Couch di Benedict Cumberbatch, nominato per l’accusa, si redime quasi immediatamente dalla veste di severo denunciatore in divisa, a differenza dei suoi solidali, perdendo subito appeal.

Se l’action di Zero Dark Thirty è ovviamente lontana anni luce, è ugualmente distante il benchè minimo racconto didascalico dei fatti alla The Report, accontentandosi di dialoghi coinvolgenti su cui elevare la perentoria recitazione dei due mattatori.

Il film è ad ogni modo basilare per farci interrogare all’infinito sul dilemma che attanaglierà Mohu per il resto dei suoi giorni: l’America è veramente la terrà delle libertà o un posto dove raggiungere consensi con le menzogne?

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