Nimic (2019)

Un violoncellista incontra in metropolitana una sconosciuta.
La donna lo segue fino a casa e tra i due partirà un surreale e verbale duello identitario davanti agli occhi increduli della famiglia dell’uomo.
Yorgos Lanthimos dopo aver sfiorato il cinema mainstream con “La favorita”, torna con questo cortometraggio ad un’idea di cinema che gli è indubbiamente più congeniale, e cioè quella allegorica ed antiborghese.
“Nimic” in dodici minuti riesce a condensare tutto il nichilismo antiborghese del regista greco.
Come affermava Pasolini, l’uomo borghese ricerca la pace nel quartiere e nella casa in cui vive, egli vorrebbe goderne sempre e per sempre.
Lanthimos è il diavolo sterminatore che distrugge tale tranquillità.
La borghesia vive protetta in appartamenti dal gelido design, tutto è collocato al posto giusto, nulla è fuori posto, la routine quotidiana è uno schema da seguire rigidamente per far sì che tutto resti com’è, che nulla infranga la quiete di un’esistenza asettica ma agiata.
La paura che qualcosa o qualcuno possa distruggere tali equilibri è però sempre dietro l’angolo.
Lanthimos cinicamente si diverte a far proprio questo, massacrare le sicurezze di una classe sociale saldamente ancorata ad atteggiamenti che non vedono di buon occhio i cambiamenti e dove tutto è mirato alla difesa e al potenziamento delle proprie conquiste sociali.
E se tutto questo venisse messo in discussione da un elemento esterno al microcosmo familiare?
E se tale elemento fosse incarnato da una donna e poi da un uomo di colore, quindi da due figure che rappresentano, per ragioni diverse e in misure diverse, la discriminazione e la subordinazione ad un occidente patriarcale e benestante?
“Nimic” porta in superficie la più recondita paura dell’ uomo contemporaneo e lo fa attraverso una sceneggiatura dalla circolarità asfissiante, tramite l’utilizzo di un furoreggiante brano di musica classica e mediante Matt Dillon, che interpreta il protagonista del corto e che da un bel po’ di anni si è dato ad un cinema meno mainstream e più estremo ( “La casa di Jack” di Lars Von Trier su tutti).
Geniale e totalmente funzionale alla storia è infatti l’ utilizzo che Lanthimos fa di Dillon, che è ormai il fantasma catatonico del macho di tante pellicole da lui interpretate in passato.
In “Nimic” l’ attore americano si fa l’ emblema di un uomo appesantito dal benessere e dalla routine, ma che continua, implacabile a covare tra gli oggetti di design della sua casa, tra i componenti della sua famiglia da spot della Mulino Bianco (anche se come vogliono le convenzioni della buona borghesia evoluta, fintamente ed ipocritamente aperta, è una famiglia multirazziale, visto che la moglie ed i figli del protagonista sono orientali), il terrore di essere sostituito, di perdere la sua unicità, il suo status sociale, tutti i suoi comportamenti, gli atteggiamenti e le abitudini tipiche di un uomo che come tutto l’ occidente benestante ha radicate in sè e che gli danno un valore socio/economico/culturale.
Un universo che detesta l’ ignoto, che anestetizza ogni dolore, che non desidera essere destabilizzato, ma che rimane saldamente avvolto nella sua comfort zone, compiendo probabilmente un’auto spersonalizzazione, e rendendosi quel niente che tanto teme, in un atto di chiusura e suicidio culturale che mette i brividi.

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