Una Battaglia dopo l’altra (2025)

Paul Thomas Anderson conclude il grande romanzo americano

Il grandioso genio di Paul Thomas Anderson sbarca nel mainstream, dopo una filmografia variegata più tendente però a masse ristrette.

Una Battaglia dopo l’altra, in origine “Vineland”, romanzo di Thomas Pynchon, può infatti essere paragonato a Il Petroliere per bacino d’utenza, e probabilmente verrà annoverato come il suo unico kolossal.

Ovviamente il poliedrico regista si muove con una cadenza lontana dai blockbuster movie, mantenendo incredibilmente e nonostante una storia infine d’azione la lucidità che lo ha reso celebre nel non far apparire al termine della lunga pellicola chi siano vinti o vincitori.

Questo perché la sua regia è continuamente grottesca, disillusa, cupa ma perfino dissacrante: caratteristiche nonché propri marchi di fabbrica che non si piegano di fronte a investimenti e botteghino, qui pari a 130 milioni a marchio Warner Bros.

Di Caprio, Penn e Del Toro sono il tris d’assi mai sopra le righe, anch’essi esageratamente e umilmente piegati ad una direzione artistica che predilige un cinema scorrevole ed esilarante seppur spettacolare.

Bob e Steven da un lato, Perfidia e Willa dall’altro rappresentano la visione maschile e femminile della rivoluzione, sia sociale che spirituale: chi la organizza, la contrasta, la ripudia e la eredita, ognuno però pariteticamente all’altro pregno di demoni interiori.

L’arco narrativo perciò parte dal passato, dalle ribellioni psichiche e fisiche di Bob e Perfidia e dal proprio attivismo rivoluzionario, affrontato da un colonnello che darà loro la caccia a vita, una caccia utile più che altro per allontanare da se stesso afflizioni occulte se non addirittura ritrovare uno scopo primario.

L’unione tra i due fighter, Willa, è la preda che Lockjaw ha messo nel mirino, una conquista che soddisferebbe i suoi fini esteriori, cioè fermare chi ostacola le integerrime “difese” dentro la “terra dei sogni”, ma anche quelli reconditi, ovvero sia un razzismo viscerale unito però in contrappasso a degli invincibili desideri sessuali “meticci”.

Un film che rinvigorisce la figura femminile, emancipata, libertaria ed inespugnabile nelle proprie convinzioni, finanche quando la vita presenta il conto salato sotto forma di oppressione, costrizione e reclusione, nonché – e soprattutto – della fine dei sogni.

Sebbene il Benicio Del Toro “sensei” venga ad un certo punto a portare un briciolo di speranza, antitetica è bensì quella maschile, che i sogni non solo li ha abbandonati, ma a causa dei quali si è logorato l’esistenza.

Il Bob di Di Caprio e lo Steve Lockjaw di Penn, uno l’estremo contrapposto dell’altro, non sono invece che la faccia della stessa medaglia. Se il primo infatti dipende ossessivamente da droga e alcol, il secondo risponde con un ridicolo se non patetico “ordine” razziale senza il quale non può stare.

Ambedue vivono nell’identica alienazione sociale, un torpore delirante, un’anonima quotidianità fatta di rimpianti e desolazione, una trappola nella quale si sono invischiati senza via d’uscita. L’interpretazione dei due è semplicemente commovente, vista una storia attoriale da primi della classe: due macchiette che si prendono gioco di se stessi ma che riescono a dividere il film in due tronconi durante l’intera caccia all’uomo (o alla donna).

Fuga e inseguimenti che Anderson dirige virando speditamente con quella camera ansiolitica che ne ha fatto un mito e che ha sovvertito i dogmi hollywoodiani, grazie a piani sequenza continui e tagli fulminei, un pathos stile Magnolia e Boogie Nights, mischiando però molto Coen Bros e Tarantino, maestri nel trasbordare su sentieri tragicomici e strambi istituzioni segrete e razzismo!

Anderson, a modo suo, conclude in maniera epica il grande romanzo americano, fermo con Licorice Pizza ad uno step giovanile grezzo e speranzoso, per sparare qui il colpo di grazia verso l’ipocrita cultura a stelle e strisce, politicamente satura di intolleranze e discriminazioni!

Una America devastata da celate ideologie sbagliate, però insanabili, immobile, isterica e turbata nel non affrontare le annose questioni razziali.

La narrazione fila via unendo la velocità supersonica della macchina da presa a degli splendidi dialoghi introspettivi, lenti e cadenzati, fra padre e figlia, vere e proprie confessioni d’amore. Un rapporto mai messo in discussione nonostante la costante “guerra” interiore dei due e che fa trasparire, miracolosamente, dettagli intimistici con cui sfidare timori ed inquietudini.

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