A Different Man (2025)

Interiorità ed esteriorità: cosa è più giusto?

La vita di Edward, affetto da neurofibromatosi di Tipo 1, malattia che ne deforma il viso a causa di tumori non cancerosi, viene portata sul grande schermo da Aaron Schimberg, giovane regista e sceneggiatore nonché già sperimentatore di film sulle trasfigurazioni visive in Chained for Life, dove si avvalse proprio della collaborazione di Adam Pearson, qui co protagonista e affetto nella realtà proprio da questa patologia.

La passione di Edward per la recitazione teatrale, mai esteriorizzata per colpa di solitudine e timidezza dovute alla sua menomazione fisica, subiscono uno scossone quando una drammaturga diventa la sua nuova vicina di casa.

La loro amicizia spingerà poi la donna a scriverne un soggetto per il teatro, al quale lo stesso Edward, una volta guarito dalla malattia e fintosi morto per ricominciare una nuova vita sotto mentite spoglie, deciderà di partecipare previa audizione.

Dentro la Maschera, Elephant Man se non addirittura l’epoca ancestrale di Freaks sono i primi esempi che risalgono in mente relazionati a opere cinematografiche sulle deformità facciali.

Se in tali casi però il dramma psicofisico, unito alla durezza nel contrastarlo e alla pietosa finanche tragica misericordia umana davano pesantezza e tristezza all’intero lungometraggio, stavolta i toni appaiono addirittura sereni.

Il compito di Schimberg, lodevole, è quello di far infatti riaffiorare in A Different Man la contrapposizione spirituale sia nell’Edward dell’ottimo Sebastian Stan, ma anche nel suo alter ego Oswald, due anime agli antipodi.

Se il primo, durante e dopo la propria trasformazione fisica, non riesce a trovare una pace sia interiore che esteriore, il secondo invece vive la sua importante limitazione come se nulla fosse, partecipando alla vita sociale in modo disincantato, arrivando quindi a molestare ferocemente la serenità dell’altro, oltre a rubargli la donna e il ruolo nella piece teatrale!

Pertanto tutto si vuole ottenere da questo lavoro tranne denunciare il dramma interno che le vittime di queste patologie devono affrontare, senza dunque approfondire le loro condizioni di vita e relativi disagi.

Qui il lato umano viene posto in secondo piano rispetto alla storia di Edward e alla propria quotidianità. Così facendo lo spettatore evita di schierarsi provando pietà per il “diverso” e disagiato, ma osserva bensì l’evolversi degli eventi in maniera quasi neutra se non fredda, arrivando perfino non ad ammirare Oswald per la “normalità” che trasmette alla propria esistenza, ma ad odiarlo per aver riportato Edward nell’oblio pre guarigione.

In pratica, la contrapposizione fra interiorità ed esteriorità, inesistente nell’uno, che dunque la sfrutta per relazionarsi col prossimo in maniera vitale ed entusiastica, rimane distaccata nell’altro, che senza la penalizzante maschera che gli ha condizionato la vecchia vita, continua comunque a palesarsi povero di personalità!

Un film perciò concettuale che forse in tonalità un po’ troppo semplicistica se non didascalica, vuole però far capire che l’animo umano e l’interiorità che gli dà linfa vitale sono nettamente più importanti di ciò che l’aspetto esteriore comunica.

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